Nel 1971 un accordo fra Giappone e Stati Uniti sancì il passaggio dell’arcipelago di Okinawa al paese asiatico dopo il periodo di reggenza americana seguito alla fine del secondo conflitto mondiale. Nello stesso anno usciva nelle sale cinematografiche nipponiche Gekido no Showa-shi: Okinawa Kessen (La battaglia di Okinawa) un lungometraggio prodotto dalla Toho e diretto da Kihachi Okamoto, che getta uno sguardo sulla sanguinosa battaglia avvenuta a Okinawa dal marzo del 1945 per circa tre mesi.

Lo scorso 23 giugno è stato celebrato a Itoman nella prefettura di Okinawa, in maniera ridotta vista la situazione causata dal Covid-19, un memoriale per ricordare le vittime della battaglia conclusasi settantacinque anni fa. Il film di Okamoto, così come la battaglia stessa, rimane ancora oggi una ferita apertissima nel cuore degli abitanti delle isole Ryukyu, il nome originario dell’arcipelago. Questo perché, nonostante siano passati così tanti anni, il modo in cui oggi il governo centrale guidato da Shinzo Abe, ormai agli sgoccioli a dir la verità, e quello in cui l’Impero giapponese usò Okinawa e la sua gente nelle fasi finali della Guerra del Pacifico, sono ancora drammaticamente molto simili.

Il lungometraggio, una grande produzione con attori importanti come Tatsuya Nakadai, Keiju Kobayashi e Kunie Tanaka, fu sceneggiato dal grande Kaneto Shindo ed è una drammatizzazione punteggiata da una narrazione in stile documentario e molti inserti di immagini d’epoca dei bombardamenti e delle battaglie che si svolsero nel territorio. Il punto di vista è esclusivamente quello giapponese, i militari americani non sono mai inquadrati in viso e per l’andamento del film non è un elemento importante.

Questo perché per Okamoto e Shindo importava mostrare le atrocità della guerra verso i civili e il disinteresse di Tokyo verso queste zone meridionali, considerate solo come punto strategico e da sacrificare in caso di necessità. Il massacro che il Giappone «impose» agli abitanti delle isole è ancora oggi scioccante: un terzo della popolazione civile fu mandata a morire, e quando la fine era vicina ed inevitabile ci furono dei suicidi di massa. Il film di Okamoto non si tira indietro e non risparmia lo spettatore, lungo tutta la durata: più di due ore e mezza. Assistiamo a molte scene in cui civili si tolgono la vita, con bombe, veleno, rasoi, oppure si spingono fino ad uccidere i propri cari per evitar loro un prolungato dolore, a bastonate o con lame con cui sgozzano i propri bambini: la varietà delle morti è tanto inaspettata quanto straziante.

Queste scene, benché molto forti, non scadono mai nella violenza fine a sé stessa, ma grazie agli effetti speciali curati da Teruyoshi Nakano, che molto contribuì ai kaiju film degli anni sessanta e settanta, raggiungono un livello di realismo che ben si inserisce nello stile del film. Gli aiuti che sarebbero dovuti arrivare da Tokyo, e che la popolazione ed i militari di stanza nelle isole aspettavano, non arrivarono mai e alla fine di giugno del 1945 più di 120 mila abitanti di Okinawa persero la vita.

Il lungometraggio, pur essendo finzione, con tanto di momenti di black humor molto tipici dello stile di Okamoto, ha un andamento abbastanza rapsodico e non segue solo un filo narrativo, ma come un reportage, mostra ora le vicende di un gruppo di persone ed ora quelle di un altro. Quello che alla fine emerge dalla visione è un senso di rabbia e sconforto, la stessa rabbia che ancora oggi anima le veementi proteste degli abitanti di Okinawa in rivolta contro la costruzione della base americana di Henoko.

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