La prima volta di Piccola patria è stata la scorsa Mostra del cinema di Venezia, quasi un anno fa. Ci sono voluti molti mesi prima che il fim dagli Orizzonti lagunari arrivasse nelle nostre sale, nel frattempo lo avevano voluto al festival di Rotterdam, tra i più importanti nel mondo – i professionisti del settore lo definiscono «il primo grande appuntamento dell’anno» visto che capita in gennaio – e poi in molti altri. Alessandro Rossetto che col suo film ha stupito – e conquistato tanti spettatori – non salta fuori dal nulla. Da anni gira «documentari» che sono storie di contraddizioni, conflitti sommersi, crepe fastidiose al punto che, per fare un esempio, il film su Feltrinelli – o sulla Feltrinelli – è stato censurato dalla «committenza» (la Feltrinelli stessa) e mai distribuito in Italia.
Nel suo caso, come in quello di molti altri, penso a Leonardo Di Costanzo, Alberto Fasulo, e la stessa Alice Rohrwache è ora in concorso a Cannes col secondo film, Le meraviglie, il «documentario» non è mai stato un «genere», ma un riferimento teorico, il laboratorio di ricerca poetica e filmica di un’immagine capace di esprimere i sentimenti contemporanei. Dunque luoghi, atmosfere – come nel caso di Rossetto in Bibione Bye Bye One e Chiusura – storie, figure emblematiche di un paesaggio italiano che questi autori provano a rendere paesaggio cinematografico.
Lo stesso sguardo torna in Piccola patria, e ne tratteggia le geometrie, la scrittura (alla sceneggiatura lo stesso Rossetto insieme a Caterina Serra e Maurizio Braucci), la visceralità delle emozioni, e anche nella «sbavature», o forse proprio grazie a esse, dona potenza al film. Eccoci di nuovo nel «suo» nordest – Rossetto è nato a Padova, dove è tornato dopo aver vissuto tra Parigi, Bologna e Roma – per quella che in fondo è una storia d’amore: tra due ragazze, le protagoniste Maria Roveran e Roberta De Solier, sconfinando più in una speciale e assoluta complicità, e tra una di loro, il personaggio di Luisa (Roveran), e il ragazzo albanese Bilal (Vladimir Doda), quasi due Romeo e Giulietta dei nostri giorni. Ma anche la storia di un presente – del resto: tutte le storie d’amore sono immerse un un tempo no? – e di un pezzo d’Italia, dei suoi umori, dei suoi malesseri e di quei cambiamenti che vi hanno generato fustrazioni economiche e personali spesso pericolose. Si parla di crisi, di lavoro che non c’è più, di un disorientamento privato e collettivo. Dello scontro tra adulti e ragazzi. Di attese e di ipocrisie – antiche e sempre nuove. Di un confine imprecisato tra città e campagna lungo i bordi di un’autostrada, e dentro a un hotel con piscina e pretese hollywoodiane ma anonimo come il resto, dove nel movimento incessante dei camion e delle automobili che non si fermano mai la realtà si scioglie nell’immaginario.
L’incontro che segue – a lungo rinviato – è accaduto pochi giorni prima dell’uscita in sala di Piccola patria, a Roma, un bel pomeriggio di sole.

Come sei arrivato all’’immagine della «Piccola patria»?

All’inizio di tutto ci sono i luoghi. Per me sono quasi un’ossessione. Avevo in mente con grande chiarezza questa immagine in cui la campagna incontra la città ma combatte per non esserne completamente assorbita. È una visione che porto con me dall’adolescenza, sono cresciuto in posti così. Dovevo trovarne uno simile, il mio film cominciava da là. Finché non siamo arrivati nell’albergo che è diventato il centro della storia, quando l’ho visto mi sono detto: eccolo, è il posto giusto. Il resto, il casolare dove vive la famiglia di Luisa, la roulotte del ragazzo albanese Bilal, è arrivato dopo. Abbiamo cercato molto anche questi spazi perché sapevo che dovevano essere vicini, tra loro doveva stabilirsi una sorta di corripondenza nell’esprimere la giutapposizione tra il contesto urbano e la campagna. Nella ricerca è fondamentale ascoltare i luoghi, capire quali cose possono entrare nel film, appropriarsi delle esperienze che i luoghi ti danno, e non solo sul piano pratico.

Però «Piccola patria» è un film costruito completamente all’interno di una dimensione narrativa.

Strutturalmente Piccola patria è come si dice una «finzione». Anche se la separazione tra documentario e finzione per me non è mai esistita, almeno da quando ho scoperto il cinema, a Parigi, vedendo i film di Scorsese, Depardon, Cassavetes, Brakhage… L’ idea di raccontare la finzione con la non-finzione, che sembra essere una scoperta di oggi, è sempre esisitita. Penso che girare un film comporti l’assunzione di un rischio, il che significa scommettere su un progetto, mettersi in pericolo, lavorare alla ricerca di un linguaggio. E in questo senso non ho mai pensato al documentario o alla finzione come a degli scomparti incomunicabili. Nel film ci sono elementi che possiamo definire più «documentaristici», la messa, il comizio, la festa popolare; li volevo, e perciò li ho cercati, dovevano funzionare come il coro della tragedia. Io e Caterina Serra (la cosceneggiatrice, ndr) abbiamo sempre pensato a questa storia come a una tragedia classica, in cui convergono una serie di microstorie, di incontri casuali insieme alla cifra locale del nordest. In questi casi ho «buttato» gli attori in una situazione di realtà chiedendogli, come per esempio in chiesa, di «diventare» i fedeli della funzione domenicale.

È per questo che hai deciso di girare in dialetto?

Visto che il territorio era la lente del nostro racconto, il dialetto mi sembrava quasi necessario. È la lingua dei luoghi, doveva essere quella del film.

C’è una componente di forte fisicità nelle immagini, non solo rispetto agli attori ma anche nel modo di rendere il paesaggio protagonista a sua volta.

Ho lavorato molto sui corpi dei protagonisti, e sul modo in cui dovevano muoversi nello spazio cercando di capovolgere il rapporto abituale tra attore e personaggio. Non volevo che si esaurisse nello spazio di un ’motore/azione/stop’. Abbiamo abitato insieme nell’albergo dove giravamo, vivendo una dimensione domestica, e in questo è stato fondamentale lavorare con una troupe giovane e soprattutto ’lontana da Roma’. Senza cioè i macchinisti o gli elettricisti ma piena di disponibilità. Con gli attori non ho mai blindato il dialogo scritto, anzi molto spesso siamo andati contro la sceneggiatura. Era previsto che saltasse nella creazione insieme, dove gli chiedevo di immaginare una storia precedente coi loro personaggi. É un lavoro importante che ricade anche sul tempo delle riprese. Forse questo è l’aspetto dove ho più usato gli strumenti del documentario. Là sai che quando cominci a girare tutto è come oro colato, per questo devi stare attento a cosa succede, devi riuscire a catturare le epifanie dell’imprevisto da dove arrivano le emozioni più profonde, conscie o inconsce, di chi ti sta davanti. Ho provato a trasferire questa esperienza nella ’finzione’ cercando di tenere diritta la barra senza limitarmi a girare le pagine della sceneggiatura.

Possiamo dire che «Piccola patria» è un film sui giovani in questo momento storico?

Direi piuttosto che è un film sul sangue dei giovani il cui presente e possibile futuro è alla mercè di tutti. I corpi, i culi delle ragazze, e tutti quegli aspetti di modi di fare che sul momento sembrano essere espressione di una grande libertà, si rivelano una forma di vampirizzazione costante. Nei miei personaggi ci sono alcune durezze trivenete che amo, quell’andare a testa bassa contro una società che umilia le loro vite.E che malgrado loro andrà avanti.

 

Parlavi del lavoro con gli attori. Nella riuscita del film sono un tassello fondamentale. Come li ha scelti?

Dovevano parlare veneto e essere disponibili alla nostra idea di set. Il casting è stato abbastyanza classico, e come succede in tutti gli incontri a quello giusto scattava qualcosa. Per farti un esempio: Maria Roveran viene dal quartiere dove sono cresciuto, abbiamo in comune la stessa ironia. Con Lucia Mascino, che interpreta la madre di Luisa, ci conoscevano da tempo, ci eravamno incontrati a un coprso di recitazione. E avere avuto un’esperienza come da attore mi ha molto aiutato.