In un articolo apparso su un quotidiano online si sostiene che il referendum costituzionale sulla riduzione del numero dei parlamentari stia dando vita ad una sorta di autentico scontro generazionale, con gli over 50 schierati per il “sì” e i giovanissimi schierati per il “no”. Non so se sia esattamente così; in ogni caso non sorprenderebbe granché. La mia contenutissima esperienza va esattamente in questa direzione: alle iniziative pubbliche cui talvolta partecipo mi trovo a constatare che il più agguerrito e disilluso è quasi sempre il cinquantenne.

Nel 2016, come molti, ho avversato la proposta di revisione della Costituzione Renzi-Boschi per due ragioni: perché quella proposta non mi convinceva dal punto di vista tecnico-giuridico e perché non mi piaceva la visione politica ad essa sottesa. Il punto è, però, questo: almeno una visione politica quella proposta ce l’aveva. Se ci chiediamo, invece, quale sia la visione politica che accompagna la proposta di riduzione del numero dei parlamentari la risposta è: nessuna. Almeno io non la vedo.

Da un lato, mi pare ci sia un problema di politica contingente da risolvere: il consenso elettorale delle forze politiche, la tenuta del governo Conte bis; dall’altro, l’antipolitica: un sentimento che serpeggia soprattutto tra i più adulti e, in special modo, tra quelli della mia generazione; in mezzo, la Costituzione.

C’è un libro pubblicato di recente da Einaudi che è particolarmente illuminante. Lo ha scritto Adolfo Scotto di Luzio e si intitola «Nel groviglio degli anni Ottanta. Politica e illusioni di una generazione nata troppo tardi». È un libro che fa male perché costringe, almeno quelli della mia età, ad uno sguardo retrospettivo senza sconti. La tesi è la seguente: la generazione degli anni ‘80 è una generazione nata troppo tardi e però anche troppo presto.

Le passioni politiche degli anni ‘80 – che trovano espressione soprattutto nel movimento della Pantera e in quello ambientalista post Cernobyl – si collocano in uno scenario sociale, politico e geopolitico mutato o che sta profondamente mutando. Le esperienze collettive del ‘68 e del ‘77 hanno ormai ceduto il passo a quelle individualiste ed effimere degli anni ‘80. Gli entusiasmi (giovanili) della politica non riescono a tramutarsi compiutamente in esperienza collettiva.

Il sistema politico – e segnatamente quello dei partiti – è prossimo allo smottamento e rispetto ad esso i giovani dell’85 sono ormai distanti. Nel nuovo mondo post ‘89, interconnesso e globalizzato, quegli entusiasmi si vanno lentamente spegnendo: il movimento No Global, a Genova, è in fondo solo il canto del cigno.

Quando la desertificazione della politica si annuncia all’orizzonte, la protesta giovanile è ormai definitivamente prigioniera della propria inadeguatezza storica, come ricorda Scotto di Luzio. Sul finire degli anni 2000, questa pesante eredità è stata, almeno in parte, raccolta dal Movimento Cinque Stelle, che sulla desertificazione della politica ha saputo costruire la propria fortuna, assorbendo in sé quegli entusiasmi e instillando in molti la convinzione che a partire dal politicamente irrilevante uno potesse valere uno.

Non causa, dunque, ma conseguenza: di un sistema politico costituito da leader senza partito e da partiti senza cittadini, i quali ad un certo punto hanno smesso di assolvere alla loro funzione fisiologica: essere corpi politici intermedi tra la società civile e le Istituzioni.

L’insofferenza per i luoghi della democrazia rappresentativa si nutre, credo, di questo retroterra culturale. Gran parte di quelli della mia generazione ha smesso da tempo di combattere affinché la politica possa spazzar via l’antipolitica e riconquistare vittoriosamente il suo centro (e i partiti cessare di essere comitati elettorali): essi non chiedono che si riparta dai luoghi di aggregazione, dai circoli, dalle sezioni di partito, dai congressi.

Semplicemente non ci credono più. La loro furia iconoclasta si è indirizzata nei confronti dele Province, ha maturato un sentimento antiregionalista e antieuropeista e oggi si scaglia contro il Parlamento e la Costituzione. Il punto è che non saranno i ragazzi degli anni ‘80 a salvare il mondo: la speranza è riposta in quei giovanissimi che, senza aver bisogno di uccidere il padre, tirano dritti e fieri verso il futuro.