Scandendo “Black lives matter”, “Basta discriminazioni”, “Non siamo cittadini di serie B”, ieri migliaia di ebrei etiopi hanno bloccato una dozzina di impostanti svincoli ed incroci stradali da nord a sud di Israele, intensificando le proteste per l’uccisione, domenica scorsa, in un sobborgo di Haifa, del 19enne Solomon Tekah compiuta da un poliziotto. Dopo i funerali del ragazzo che si sono tenuti a Tel Regev, in diversi centri abitati lontane dalle luci di Tel Aviv, Haifa e Gerusalemme, città celebrate da una pubblicità che da qualche tempo appare anche sui canali tv italiani, si sono viste scene da Intifada. A Yokneam, Beersheva, Afula, Petah Tikwa, Netanyahu, Kiryat Ata ed altre località avvolte dal fumo nero dei pneumatici dati alle fiamme, la polizia ha prima lanciato lacrimogeni e granate assordanti, poi ha caricato i manifestanti arrestandone una quarantina. In quelle stesse ore a Gerusalemme si è svolta un’altra protesta, quella degli ebrei haredim, ultraortodossi, contro la leva obbligatoria che il governo Netanyahu vuole imporre anche alla loro comunità.

Le proteste per l’uccisione di Solomon Tekah con ogni probabilità andranno avanti per tutta la settimana di lutto. Potrebbero perciò ripetersi gli scontri violenti tra etiopi e polizia visti nel 2015 a Piazza Rabin nel centro di Tel Aviv (oltre 40 dimostranti feriti). Le condizioni ci sono tutte. Il giovane ucciso domenica è la seconda vittima in sei mesi del grilletto facile della polizia. A gennaio fu ucciso Yehuda Biadga, un disabile. «Ridatemi il mio ragazzo», ripeteva ieri Worka Tekah, padre di Solomon, pronunciando l’elogio funebre davanti ad una folla commossa. Nato e cresciuto a Gondar, in Etiopia, Solomon era emigrato in Israele sei anni fa. Aveva già avuto problemi con la polizia in precedenti manifestazioni di protesta. Le circostanze in cui è stato colpito a morte restano oscure. Tutto è avvenuto a Kiryat Haim alle porte di Haifa. Un poliziotto non in servizio e che stava passeggiando con la sua famiglia, ha estratto dalla giacca la sua pistola per mettere fine, così afferma, ad una rissa tra Solomon e un altro ragazzo. A questo punto tutto si entra nella nebbia. L’agente sostiene di aver fatto fuoco per legittima difesa e puntando l’arma verso terra, perché rischiava di essere aggredito. Il proiettile sarebbe rimbalzato colpendo mortalmente il giovane etiope. La sua ricostruzione è contestata dalla famiglia Tekah. Un testimone oculare sostiene che sarebbe stato proprio il poliziotto ad istigare l’incidente. Ad accendere gli animi è stata anche la decisione dei giudici di scarcerarlo e metterlo ai domiciliari dietro il pagamento di una cauzione di appena 5mila shekel, circa 1.200 euro. L’autopsia non è servita a sciogliere i dubbi. Il medico legale sostiene che i tentativi dei paramedici di tenere in vita il giovane avrebbero compromesso l’accertamento dell’accaduto.

Di sicuro al momento ci sono solo il grilletto facile dei poliziotti e le discriminazioni che subisce la comunità falasha, come sono note in Israele le 135.000 persone giunte nello Stato ebraico – con due gigantesche operazioni aeree nel 1984 e 1991 – ed i loro discendenti. «Veniamo dipinti come criminali e violenti, anche se siamo noi a subire la violenza», ha spiegato al quotidiano Haaretz Avi Yalou, un attivista. «La polizia attraverso i messaggi che trasmette ai media – ha aggiunto – cerca di concentrare l’attenzione sulla comunità etiope e di descriverla come violenta, senza spiegare cosa è successo per anni, con poliziotti che sparano ai cittadini neri». Le frasi di circostanza pronunciate dal premier Netanyahu sono servite solo ad aggravare la rabbia della comunità. «Ci impegneremo per arrivare alla verità il prima possibile – ha promesso il primo ministro – Negli anni scorsi ci siamo sforzati per integrarvi all’interno della società israeliana». Gli ebrei etiopi lo smentiscono. La parlamentare Pnina Tamano-Shata ha ricordato che la polizia appena qualche giorno fa aveva annunciato «l’apertura della stagione» contro i giovani di origine etiope.