Fotografare le piccole azioni quotidiane, ritrarre i soggetti nella vita di tutti i giorni. Immagini avvolte quasi da un alone, un alone metaforico, quello attorno agli scatti dell’artista francese Emeric Lhuisset, in cui volti e luoghi sono destinati a scomparire, a diventare un unico sfondo blu dove tutto perde forma e si confonde, si trasforma, sparisce.
È il progetto L’autre rive, realizzato in Iraq, Siria, Turchia, Grecia, Germania, Danimarca e Francia fra il 2011 e il 2017, in mostra nello Spazio U30cinque di Reggio Emilia fino al 17 giugno, nella sezione Mediterranea Youth Photo, Saggio sulla cecità (per Fotografia Europea, a cura di Daniele De Luigi, presentata in anteprima nel 2017 a Tirana nella 18a Biennale dei giovani artisti dell’Europa e del Mediterraneo).
I lavori di Lhuisset sono esposti insieme a quelli dell’italiana Federica Landi sulle donne africane respinte da Goro e Gorino nel 2016 e della portoghese Ana Catarina Pinho che indaga le rotte dei migranti. Il progetto comune riguarda il mare, luogo da cui passano centinaia di migliaia di esseri umani in fuga. La cecità, presa in prestito dal romanzo di Saramago, vuole contrapporre la sovraesposizione mediatica all’impossibilità di vedere in profondità ciò che sta accadendo. Protagonisti degli scatti sono rifugiati approdati in Europa che Lhuisset ha conosciuto durante gli anni trascorsi in alcuni paesi in guerra. Il lavoro è potente anche per l’effetto che hanno luce e sole nel far scivolare nel vuoto e nell’assenza tutti quegli esseri umani. Una drammatica metafora del destino di chi muore attraversando il Mediterraneo, sparendo fra le onde come accade a queste fotografie, che per la tecnica della cianotipia si cancellano, lasciando solo il colore blu intenso del mare.

Lhuisset, classe ’83, è cresciuto nella periferia parigina, si è diplomato alla scuola di Belle arti e in geopolitica alla Sorbona. «La cianotipia – spiega – è uno dei primi processi fotografici dell’800 in cui le foto sono blu e bianche. Ho modificato il processo per far risultare le foto sensibili alla luce del sole, l’idea è che progressivamente spariscano, il blu appare pian piano e infine si trasforma in un monocromo. È una doppia metafora, da un lato il mediterraneo in cui tragicamente scompaiono molti dei migranti e il blu colore dell’Europa, dove i rifugiati che arrivano sono futuri cittadini. Le foto evaporano nel blu come accade ai rifugiati. Come tali si dissolvono per riapparire in quanto cittadini europei. I soggetti degli scatti sono persone che conosco da nove anni, ho lavorato in Medio Oriente, soprattutto in Iraq e in Siria. Molti di loro hanno deciso di lasciare la guerra per rifugiarsi in Europa: volevo raccontarlo, stanco delle rappresentazioni che ci arrivano dei rifugiati. I media spesso mostrano l’arresto, i cadaveri sulla spiaggia, i giovani in treno o che scalano le barriere per scappare dalla polizia, ma ci sono anche rappresentazioni ansiogene con orde di persone che camminano una dietro l’altra, immagini da cataclisma usate dai populisti, o ancora rifugiati soli al freddo nella notte per un effetto empatico, creando una sorta di miserabilismo. Volevo scartare, consegnando un’immagine, la più banale possibile, di un quotidiano che potrebbe essere quello di chiunque: il suo, il mio, quello dell’uomo della porta accanto. C’è chi fa sport in una sala da muscoli, chi scrive poesie seduto sul letto, una coppia che scatta foto in spiaggia. Quasi tutti i miei amici sono passati dall’isola di Lesbo. Uno di loro, Fouad, mi aveva mandato un messaggio con una sua foto sulla riva del mare in Turchia in cui scriveva: «arriverò anch’io presto in Europa, farò la traversata in mare». La sua barca è naufragata e lui è morto. Il lavoro, che avevo già iniziato, si è trasformato in un omaggio. Nell’ultima parte del progetto, ho interagito con la seconda generazione, ovvero i genitori dei miei amici che sono stati rifugiati».

Le immagini di Lhuisset non restano uguali a se stesse, evaporano. Difficile calcolare il tempo necessario alla loro scomparsa, «dipende da sole, luce e umidità», dice.
«Se ne dovessi scegliere una immagine rappresentativa del progetto – continua l’artista – sarebbe lo scatto del braccio di mare da cui si vede da un lato la Turchia e dall’altro l’Europa. Sembra una cartolina e invece è un’immagine tragica.
Del suo prossimo lavoro, Emeric Lhuisset preferisce non parlare, «sarei a rischio di arresto quando andrò nella zona interessata», confessa. Può invece raccontarci come mette insieme le sue due anime, quella artistica e la geopolitica. «Generalmente inseguo il metodo di un ricercatore, prima mi avvicino con un approccio teorico. Quando penso di avere una buona padronanza del soggetto che voglio trattare, lavoro sul terreno con una attitudine antropologica. E quando penso di avere una conoscenza solida, e cose interessanti da dire, produco un’opera che diventa uno sguardo artistico sul soggetto per mostrarlo sotto un’altra prospettiva. Non cerco di denunciare, ma piuttosto di portare la persone a interrogarsi su ciò che vedono. In passato, ho lavorato su numerosi soggetti geopolitici che mi hanno colpito e posto domande, come il rischio della guerra dell’acqua in Iraq, della rivoluzione ucraina, la Guerra mostrata dalla parte dei rivoluzionari siriani o dei combattenti curdi…».