Che cosa possiamo imparare ancora dal Giappone? Forse come rendere la quotidianità un’arte. È questo lo spirito che si percepisce dagli oggetti presentati al Salone di Milano di quest’anno che rispecchiano il messaggio lanciato da alcuni artigiani-artisti invitati a esporre proprio tra gli eleganti scaffali del negozio più grande d’Europa di Muji: il non-marchio più marchio che ci sia, rappresentativo di tutto il design giapponese contemporaneo.

Una sorta di sfida quella di presentare accanto a prodotti di produzione industriale – che già sembrano rendere, con la loro essenzialità formale, lo spazio abitativo perfetto sia esteticamente sia da un punto di vista utilitaristico – oggetti d’uso quotidiano realizzati però a mano da artigiani designer di se stessi. Comune denominatore la volontà di rendere la quotidianità accogliente, come dice il titolo della loro mostra Tatazumai (esposizione presso la Triennale, Spazio Japan Design Week
Yudo).

 

Un termine difficilmente traducibile in italiano, poco usato anche in Giappone, che indica quella particolare capacità di un oggetto di trasformare l’atmosfera di una stanza una volta posto al suo interno, così come l’armonia che si crea tra oggetto e spazio circostante immediatamente percepita dall’occhio di chi vi è accolto. Può essere un piatto laccato, una ciotola di vetro, un vaso di ceramica, un tessuto, in ogni caso saranno la cura nella forma e nei materiali utilizzati a renderlo unico e allo stesso tempo facile da usare. Questo il punto fondamentale che sembra accomunare più personalità del mondo dell’artigianato: Mitani Ryuji (designer del legno), Iwata Keisuke (ceramica) e Iwata Michiko (artista), Tsuji Kazumi (vetro), Ando Akiko (tessuti) e Ando Masanobu (ceramica).

Sono nomi noti in Giappone, che definire artigiani sembra diminutivo rispetto alla loro creatività e novità rispetto alla tradizione, e formano una sorta di movimento che si è sviluppato a partire dagli anni Duemila, con il crollo dell’economia dopo la Bolla, di cui in parte sono già consapevoli, ma che ancora non si può bene definire, proprio per il fatto che va a collocarsi fuori dagli schemi e dalle gerarchie già noti di arte-artigianato-design. Forse si potrebbe parlare di «seikatsu kogei», in italiano «artigianato del quotidiano», in inglese creators for everyday life, facendo riferimento all’intenzione di questi artigiani-artisti che si pongono a metà strada tra l’oggetto economico industriale da usare tutti i giorni e l’oggetto d’alto design che uno limita nell’uso per timore di romperlo.

In alternativa propongono oggetti belli, unici, fatti a mano ma non in edizioni limitate, internazionali nella concezione, ossia fatti in Giappone ma non per questo legati alla tradizione classica, affinché possano essere utilizzati in qualunque spazio di qualsiasi cultura.

Dietro la produzione di questi oggetti – in legno laccato bianco anziché la tradizionale lacca rossa; in ceramica smaltata fino a brillare come metallo o lasciata informe e grezza priva di qualsiasi smalto; in vetro colorato dalle forme lisce e semplici, più spesso assimilate alla ceramica – si legge la volontà degli autori di rendere il bello a portata di tutti anche come mezzo di rieducazione e di cambiamento sociale.

Un modo di combattere il sistema del consumismo creando nuove modalità di rapporto tra chi produce e chi fruisce; una necessità che è stata sentita non solo dagli artisti-artigiani, ma anche da gallerie, riviste, spazi museali che li invitano a esporre e ne supportano la vendita diretta. Impossibile non pensare al movimento Mingei che, coniato da Yanagi Soetsu negli anni Venti, in qualche modo segnò la fine dei prodotti d’artigianato quotidiani anonimi definendoli tali con il termine «artigianato popolare». Oggi sembra si voglia torna indietro nel tempo, ridando libertà a quella produzione semplicemente bella che nei secoli ha sempre accompagnato il sonno e il nutrimento di tutti i giorni senza etichette.