Niente è ciò che sembra, neanche se siamo di fronte all’evidenza di un bambino talmente trascurato dai suoi genitori tossicodipendenti da essere rinchiuso in un armadio, infreddolito e ricoperto dalle proprie feci. Per dimostrare il detto per cui – con le parole dell’attore Nikolaj Coster-Waldau – «un libro non si giudica dalla copertina», la regista danese Susanne Bier con il suo Second Chance ci mette di fronte a «due situazioni molto estreme»: da un lato una famiglia borghese con tutto quello che si potrebbe desiderare, e dall’altro due tossici – lui violento, lei completamente succube – che vivono in una topaia. L’unica cosa che accomuna queste famiglie sono i due figli, entrambi di poche settimane. Andreas, il personaggio interpretato da Nikolaj Coster-Waldau – a Roma per presentare l’ultimo lavoro della regista vincitrice del premio Oscar con In un mondo migliore – è un poliziotto, sposato con la bella Anna e padre del piccolo Alexander. Nella prima sequenza del film lo vediamo fare irruzione in casa di Tristan e Sanne per trovare il loro bambino Sofus in condizioni raccapriccianti. «Fin dalla scena iniziale – commenta l’attore danese, meglio noto come il Jamie Lannister di Il trono di spade – siamo tutti con Andreas, vediamo la situazione attraverso i suoi occhi e vogliamo salvare quel bambino da delle persone orribili. Ma bisogna stare attenti a dare giudizi».

Infatti, quando il figlio di Andreas muore improvvisamente e senza motivi apparenti, il poliziotto incapace di accettare la sua tragedia lo sostituisce di nascosto col figlio di Tristan e Sanne, portandosi via Sofus. All’apparenza, Andreas sta dando a se stesso ed alla moglie la seconda chance del titolo, sottraendo un neonato a chi non lo meritava. «Essere umani – commenta ancora Waldau – è una costante lotta con la nostra morale e le persone che vorremmo essere, ma anche fare cose di cui non ci immaginavamo capaci. Susanne è molto brava a sollevare delle domande su ciò che è giusto e sbagliato, a mostrare questa contrapposizione e questi dilemmi in un modo a cui tutti possiamo rapportarci».

In effetti, è fin troppo semplice calarsi nei panni di Andreas e capire il suo gesto, ma da questo momento in poi il film prova a spiegare come l’uomo è caduto in errore, soprattutto nell’aver ritenuto di essere l’unico meritevole di una seconda possibilità. Così come in Non desiderare la donna d’altri era impossibile giudicare il gesto del protagonista, che uccide il suo compagno di prigionia in Afghanistan per avere salva la vita, per poi compromettere per sempre il suo rapporto con la propria famiglia a causa del senso di colpa, le due madri di Second Chance portano Andreas a commettere un crimine che nasce solo ed esclusivamente dalla sua umanità.

In quasi tutti i film di Susanne Bier – che siano commedie come il recente Love is All You Need, melodrammi come Dopo il matrimonio, o thriller sui generis come lo stesso Second Chance – la famiglia è il centro di irradiazione di dilemmi di portata universale, pure nell’impossibilità di dare sentenze morali inappellabili.
In questo caso, né nei confronti di Sanne «che – commenta ancora Waldau – trascura il suo bambino», né in quelli di Anna, «vittima di un senso di colpa molto diffuso nell’occidente benestante, per cui non ci si sente in diritto di soffrire, ma bisognerebbe essere più in grado di perdonare se stessi». Due maternità opposte e speculari in cui nulla, per l’appunto, è come sembra, o se pure lo è non può bastare a rendere conto della complessità che la superficie copre. Il limite di Second chance è proprio la meccanicità con cui si vuole provare questo assioma, per cui lo stesso colpo di scena finale risulta prevedibile da subito: costruendo cioè un Ying Yang fin troppo simmetrico del dolore e del male che alberga in una famiglia perfetta contro il barlume di speranza e redenzione che cresce in seno anche alla più squallida delle persone.