La richiesta di rinvio a giudizio di Salvini da parte del Tribunale dei ministri ha puntualmente innescato, come per un riflesso condizionato, l’annosa diatriba sul tema «a chi giova» e quella parallela sui rapporti tra giustizia e politica. È una diatriba che registrò un’impennata nel 1994 (quando a pochi mesi dal suo insediamento il capo del governo Berlusconi ricevette il famoso avviso di garanzia), divenendo pressoché endemica per tutta l’epoca in cui il padrone della Fininvest è stato al centro della politica italiana, ma riproponendosi periodicamente anche dopo.

Niente di male che ci si domandi se e come una vicenda giudiziaria influisca sulla vita politica. Per fare un esempio, il quesito intorno agli effetti della vicenda di Tangentopoli sulla storia politica italiana è non solo legittimo ma del tutto pertinente. Il problema nasce quando si sottintende che le iniziative della magistratura siano in tali casi mosse precisamente dall’intenzione di esercitare in un senso o nell’altro questa influenza, cosa che può essere talvolta vera ma non lo è automaticamente. Ancora peggio quando se ne fa discendere il corollario (esplicito o implicito) che i magistrati farebbero bene ad astenersi dall’intraprendere azioni di questo tipo, e ciò allo scopo esattamente opposto di evitare questa influenza: un corollario aberrante, che dimentica l’obbligatorietà dell’azione penale vigente in Italia e che suggerisce al giudice di fare proprio quello che gli si rimprovera: ossia di muoversi in funzione non della legge ma delle dinamiche politiche.

Tutt’altra cosa – questa sì condivisibile – è la critica rivolta alle forze politiche che si affidino all’azione giudiziaria delegando ad essa il compito di metter fuori gioco i loro avversari: che è in effetti quantomeno un’ammissione di impotenza.

Resta invece legittimo discutere politicamente e moralmente sulla natura degli atti compiuti da uomini di governo anche nei termini della loro eventuale valenza criminale, pur rimettendosi su questo punto agli esiti dell’azione penale ma sempre ricordando – come da qualche tempo si sforza con sofferenza di far capire Massimo Cacciari – che esiste una legge umana universale al di sopra del diritto positivo.

Nel caso in questione, è drammatico che la decisione del tribunale sia destinata a potenziare il profilo di Salvini come uomo forte, a espandere il suo consenso e a giovargli nella contesa elettorale tra lui e il suo partner di governo. Ciò non impedisce di dire che il ministro stia commettendo un crimine contro l’umanità, nel senso sostanziale se non tecnico: come chiamare altrimenti il prolungamento delle sofferenze, anche solo dei disagi, di persone in fuga dalla povertà, dalle torture, dalle vessazioni di ogni tipo, già esposte al rischio della vita propria e dei propri figli anche piccoli, talvolta neonati e quindi più fragili, impedendo loro di raggiungere presto, subito, una meta sicura a portata di mano o (come i altri casi) lasciando aperta la possibilità che siano ricondotte là da dove sono fuggite per salvarsi? E cosa dire se questo prolungamento è fatto allo scopo di esercitare una pressione politica su altri stati europei? Non assomiglia tutto ciò a un sequestro di persona a scopo di ricatto?
È esattamente questo che è accaduto nel caso della Diciotti ed è questo che sta nuovamente accadendo sotto i nostri occhi. Chi conosce il mare sa cosa significa la classificazione di “forza 7” nella scala Beufort che va da 0 (mare calmo) a 12 (uragano). Chi consulta il meteo sa che in questi giorni il Mediterraneo e i mari italiani sono battuti da venti forti o fortissimi. La Sea Watch sta cercando un riparo, si avvicina alle coste sottovento per evitare il peggio, si dirige verso aree portuali nella speranza di approdare. Intimarle di dirigersi a Marsiglia mentre si trova nel mare di Sicilia orientale significa costringerla a un’operazione carica di incognite, di rischi e di ulteriori sofferenze e paure.

Sì, diciamo che Salvini sta commettendo un crimine, quali che siano le sue motivazioni: compresa quella di proteggere gli italiani da un’inesistente minaccia.