In una breve intervista rilasciata il 28 ottobre all’ Huffington Post, il deputato di Italia Viva Davide Faraone usa i termini riformismo/riformista ben 11 volte. Naturalmente definisce come i più coerenti riformisti i militanti dell’Italia Viva di Renzi, ma considera riformisti anche Carfagna, Lupi e tutti i moderati di Forza Italia a cominciare da Micciché, ed in fondo anche Giorgetti e i moderati della Lega. Quelli del Pd, invece, «il riformismo non sanno dove sta di casa». Soprattutto, per Faraone, è fondamentale «lo sforzo riformista per l’Italia» del governo Draghi, che deve essere inteso come riformismo permanente non «solo figlio dell’emergenza».

Sempre in questi giorni (24 ottobre) l’ex direttore di Repubblica Ezio Mauro, osserva che il riformismo lo abbiamo «sotto gli occhi» ed è rappresentato da quelle forze che per Faraone «non sanno dove sta di casa»: cioè dal Pd «con in pancia» (espressione del 2013 di Scalfari: «il Pd con in pancia Vendola) i cespugli del centrosinistra.

Per Faraone l’essenza del riformismo è il «cambiamento»; per Mauro la «tensione (…) portare a termine l’imperfezione».
Numerosi altri significati si possono trovare nell’uso di una parola la cui forza sta solo nella mancanza di determinazioni in grado di dare razionalmente conto del rapporto tra il nome e la cosa. In questo modo diventa riformista tutto ciò che promuove la modernità, ovviamente una modernità anch’essa priva di determinazioni.

Dal punto di vista dell’analisi storica il riformismo indeterminato si configura come esercizio sul nulla. Solo le determinazioni del riformismo hanno concretezza storica. Solo tali determinazioni sono necessarie per l’analisi politica. Il riformismo indeterminato, la modernità indeterminata sono luoghi favorevoli per qualsiasi scorreria a sfondo politicistico/affaristico, cioè per quelle pratiche abituali in tanta parte del nostro ceto politico.

Il giornalismo colto, quello che Mauro intende rappresentare, non dovrebbe contribuire a rafforzare le logiche dell’indeterminatezza. Non dovrebbe usare il termine come se mantenesse una sorta di significato profondo che in qualche modo lega la concezione del riformismo di Turati a quella di Craxi, di Veltroni e poi, magari, anche di Renzi. La continuità profonda del riformismo, consisterebbe nella sua contrapposizione al rivoluzionarismo, declinato volta a volta come massimalismo, comunismo e poi a tutte le realtà che esercitano, come sottolinea Mauro, una «critica radicale».

I termini tramandati non esprimono la realtà dei processi storici. «I termini invariati – ha sostenuto Theodor Adorno – esprimono l’identità dei problemi tramandati, mentre il processo storico che risolve i problemi in modi diversi dev’essere cercato nel cambiamento dei significati». Per questo quando con lo stesso termine si intende una cultura politica ed una pratica politica contrapposta a quella che il termine indicava precedentemente, il cambiamento di significato è importante indicatore del cambiamento storico. Continuare ad usare la dicotomia riformista/rivoluzionario, questa si novecentesca e poco adatta persino per una parte consistente del Novecento, vuol dire, appunto, non comprendere la caratteristica del mutamento storico intervenuto alla fine del XX secolo.

Il rifiuto di usare il termine riformismo per quello che «abbiamo sotto gli occhi», non deriva dal fatto che si tratti di «una parola troppo pallida», bensì dal fatto che si tratta di un riformismo introvabile. Chi scrive queste note ha argomentato in uno dei suoi studi dedicati alla teoria e pratica del riformismo la tesi seguente: «Nella lunga storia del movimento socialista ed operaio il riformismo è stato l’ordinaria normalità, la normalità strutturale, delle pratiche organizzative e politiche. Le rivoluzioni in atto, non il discorso sulla rivoluzione, ne sono state le contingenze extraordinarie, le cesure dell’ordinario svolgimento strutturale».

I «critici radicali» non intendono certo tenersi lontani dalla parola, vogliono invece che sia interpretata tramite quelle determinazioni, empiricamente rilevate, le quali, pur nel cambiamento, si rispecchiano ancora oggi nelle parole che Turati scriveva nel momento in cui il riformismo si definiva: «Gli oppressi, (…) i dominati hanno bisogno di lotta, di riforme che siano conquiste, ne agevolino successive, preparino la rivoluzione economica e sociale, siano rivoluzione esse stesse».

L’unica garanzia di riformismo realmente operante, insomma, era (è) il mantenimento dell’autonomia politica e culturale del socialismo. Il riformismo forte è possibile solo in presenza di un socialismo forte.
Solo a queste condizioni, solo con lo sguardo rivolto verso tutta l’esperienza del socialismo storico, il riformismo cessa di essere introvabile.