Un dato più degli altri racconta l’aria che tira in Spagna per queste europee. Mentre in tutto il paese il numero di richieste di voto per posta è sceso del 4%, in linea con il calo previsto nell’affluenza alle urne (42%, contro il 46% del 2009), nella sola Catalogna le richieste sono aumentate di quasi il 50%. Un’ansia di partecipazione in controtendenza rispetto alla disaffezione generale, spia del desiderio di potersi esprimere su qualcosa che sembra interessare molto di più dell’Eurocamera.

Oggi l’avanguardia dell’indipendentismo in territorio spagnolo è certamente la Catalogna. Con la questione basca in via di normalizzazione (nonostante gli sforzi del governo di Mariano Rajoy di criminalizzare gli esponenti della sinistra separatista di Euskadi), con gli irredentisti galiziani poco visibili, ora è proprio il «diritto a decidere» dei catalani al centro della scena nazionalista. Il Parlament di Barcellona con maggioranza di due terzi ha chiesto al governo centrale l’autorizzazione a indire (secondo la costituzione spagnola) un referendum sullo status futuro della Comunità autonoma. Una domanda che, come prevedibile, ha ricevuto a poche settimane dalle elezioni un secco «no» nelle Cortes di Madrid dal Pp di Rajoy e dai socialisti (Psoe). Rifiuto che il presidente del governo catalano Artur Mas (CiU, federazione di centrodestra nazionalista) è riuscito a trasformare in un’arma da agitare contro il governo di Madrid.

A questo punto, Mas ha ancora due carte da giocare: far approvare una legge catalana (che l’esecutivo centrale certamente impugnerà) per svolgere una «consultazione» (non un referendum vero e proprio che può convocare solo il governo centrale) o sciogliere il Parlament e trasformare le elezioni anticipate in un plebiscito da svolgere il 9 novembre, data scelta qualche mese fa da Mas ed Esquerra Republicana (che appoggia esternamente l’esecutivo di Barcellona solo per questo motivo) per celebrare «qualcosa». Nel frattempo, il 18 settembre gli scozzesi – diventati ormai la stella polare per gli indipendentisti catalani – si saranno pronunciati sul proprio referendum, e il governo catalano spera di poter utilizzare a suo favore questo risultato.

Il risultato di questo scontro è che i due principali partiti catalani non parlano d’Europa. Lo slogan di CiU è di far sentire a Bruxelles la voce del Sì (all’indipendenza). Soprassedendo sul fatto che metà della federazione (formata dai liberali di Convergència e dai democristiani di Unió) fa parte del Ppe di Jean-Claude Juncker, che sul tema catalano è allineato sulle posizioni del premier Rajoy. La sinistra indipendentista di Esquerra Republicana lotta esclusivamente per strappare a CiU l’egemonia nel campo nazionalista: impossibile trovare traccia di altri temi nella loro campagna elettorale. Non una parola su tagli, corruzione, troika o futuro dell’Ue.

Il terzo partito, Iniciativa Catalunya Verds (alleato a livello nazionale di Izquierda Unida), praticamente invisibile sui media, è a favore dello svolgimento del referendum (senza aver preso una posizione nel merito), ma cerca di mettere in agenda i temi sociali ed economici assenti dal dibattito. I socialisti catalani sperano di contenere il prevedibile crollo, dovuto sia alla debolezza del Psoe a livello nazionale, sia alla loro posizione confusa sul processo di autodeterminazione. Completano il quadro il Pp, che in Catalogna è una forza residuale, e un partito catalano di recente formazione (Cittadini): entrambi difendono lo status quo istituzionale. Dopo un lungo dibattito interno ha deciso di non partecipare, invece, la Cup, la lista nazionalista della sinistra radicale che aveva ottenuto un inaspettato successo alle ultime elezioni catalane: pur appoggiando la coalizione di partiti nazionalisti di sinistra (Los pueblos deciden), non si presenta direttamente. Un po’ per protesta contro le politiche neoliberali europee, un po’ per paura di disperdere le energie e perdere di vista il contatto con la base, con i paesi e le città catalane, che ha permesso loro di crescere molto in pochissimo tempo.