Nel 1952 Piero Calamandrei dettò la celebre epigrafe incisa sulla «lapide dell’ignominia» in risposta al generale tedesco Albert Kesserling che, senza vergogna per le stragi perpetrate dai nazisti ai suoi ordini, aveva affermato di meritare un monumento per il suo operato in Italia.

Nel nostro tempo segnato dalle accese disfide toponomastiche che hanno messo in discussione statue, monumenti e intitolazioni di strade e piazze, il bel libro di Carlo Ricchini, ex caporedattore de L’Unità, L’avrai camerata Almirante la via che pretendi da noi italiani (4 Punte edizioni, pp. 140, euro 15), non solo riecheggia l’incipit con cui Calamandrei consegnava alla storia una delle prose più note sulla Guerra di Liberazione, che si concludeva con il celebre motto «ora e sempre Resistenza», ma ci riporta nel presente di un Paese confuso che dibatte sulla possibilità di intitolare vie e piazze (talvolta, come a Terracina, in una coabitazione tanto gravida di ignoranza quanto priva di pudore con il segretario del Pci Enrico Berlinguer) al fascista di Salò e segretario del Msi Giorgio Almirante e ad altre figure del ventennio mussoliniano.

IL LIBRO RIPERCORRE con documentata precisione una vicenda del 1971 quando Il Manifesto e L’Unità pubblicarono un bando emesso, nella primavera del 1944, dal «governo» collaborazionista di Salò che minacciava la fucilazione alla schiena di tutti quei giovani italiani «sbandati» (soldati che non si erano voluti arruolare con le milizie fasciste) o «appartenenti a bande» (i partigiani) che non si fossero presentati presso i comandi nazisti e repubblichini.

Quel manifesto, ritrovato nell’archivio del comune di Massa Marittima, era firmato da Almirante che, dopo essere stato segretario di redazione de La difesa della razza negli anni della dittatura, nel 1944 era divenuto capo di gabinetto del ministero della cultura popolare guidato da Fernando Mezzasoma all’epoca in cui i fascisti di Salò scatenarono la guerra civile in Italia.
Almirante querelò i giornali per diffamazione sostenendo la falsità del documento.

In tribunale comparvero per Il Manifesto Luciana Castellina e per L’Unità lo stesso Carlo Ricchini.

La primavera del 1944 nella zona di Grosseto era stata molto cruenta, i nazifascisti il 13-14 giugno avevano perpetrato la strage di Niccioleta fucilando 83 minatori che si erano rifiutati di rispondere ai bandi fascisti di presentazione, quelli appunto recanti la firma di Almirante e da lui diffusi a tutte le prefetture delle zone occupate dai nazifascisti.

IL PROCESSO, ricorda Ricchini nelle pagine del libro, si concluse nel 1973 con la piena assoluzione dei giornali e la condanna al pagamento delle spese processuali per il segretario del Msi nonché con il riconoscimento dell’autenticità del bando a sua firma.

Il pubblico ministero Vittorio Occorsio, assassinato il 10 luglio 1976 dal neofascista Pierluigi Concutelli, annunciò inoltre l’avvio di una procedura contro Almirante «per i reati di calunnia e falsa testimonianza. Per aver affermato che il manifesto era apocrifo e per tutte le menzogne dichiarate davanti ai giudici».

Di quel procedimento si persero le tracce dopo la scomparsa del magistrato che in aula, di fronte al tentativo di Almirante di minimizzare il proprio ruolo e allontanare da sé le responsabilità dichiarò: «È una verità storica che tutti i ministeri della repubblica sociale esercitavano funzioni di pubblica sicurezza contro i partigiani».

Quelli del processo contro Il Manifesto e L’Unità erano gli anni in cui il Procuratore generale di Milano Luigi Bianchi D’Espinoza ottenne dal Parlamento l’autorizzazione a procedere contro il segretario del Msi per ricostituzione del partito fascista nel quadro di quelle attività di tipo squadristico e violento che caratterizzarono il partito fondato da Almirante con episodi simbolici come la strumentalizzazione della rivolta di Reggio Calabria o l’uccisione dell’agente Antonio Marino a Milano.

Raccontando una vicenda processuale del passato il libro di Ricchini ha, infine, il merito di richiamare la nostra attenzione su episodi di sconcertante cronaca quotidiana.

Il manifesto oggetto del processo Almirante rientrava nelle disposizioni previste dai famigerati bandi voluti dal generale fascista Rodolfo Graziani.

Oggi nel suo paese natale di Affile è edificato un monumento allo stesso Graziani che, già criminale di guerra in Africa, comandò le milizie di Salò nella guerra anti-partigiana e ideò i bandi contro i civili poi diffusi da figure come Almirante.

L’ULTIMA SENTENZA della Cassazione ha sostenuto che quel mausoleo non rappresenterebbe apologia di fascismo e che è lecito sia mantenuto e non smantellato.

Il cerchio di un Paese senza memoria si chiude, dunque, con il monumento che Kesserling reclamò per sé eretto ufficialmente in onore di un suo camerata.