Microsoft ha aperto due centri di sviluppo tecnologico in Kenya e in Nigeria. Google uno di ricerca sull’intelligenza artificiale in Ghana. Facebook è in trattativa per la costruzione di un cavo internet sottomarino che circondi il continente. I colossi del tech confermano che l’Africa è già avviata verso la “quarta rivoluzione”, quella digitale.

Dal punto di vista infrastrutturale le premesse per abbracciarla ci sono, anche se con alcune lacune. «L’Africa può contare sulla stessa capacità delle reti che collegano Europa e Nord America» ha dichiarato Leonardo Cerciello, direttore commerciale dell’area Africa e Medio Oriente di Sparkle, operatore globale di telecomunicazioni, intervistato per Africa&Affari da Massimo Zaurrini. Se, infatti, le autostrade digitali sottomarine, che scorrono lungo il perimetro del continente, connettono quest’ultimo egregiamente dall’esterno, «il problema è la penetrazione della rete all’interno dei vari Paesi» spiega Zaurrini. «Le infrastrutture digitali interne sono talvolta carenti e la scarsa utenza nelle zone rurali spesso non ne giustifica l’investimento».

Secondo il rapporto Foresight Africa 2020 gli stati africani spendono circa l’1.1% del Pil in investimenti digitali, contro il 3.2% delle economie avanzate, nonostante nello scorso ventennio il numero di utenti connessi sia aumentato da 4.5 a 523 milioni, mentre nel resto del mondo non è nemmeno raddoppiato.

L’Africa intanto vanta un record: è leader mondiale per pagamenti tramite cellulare che rappresentano quasi il 10% del PIL nell’intero continente. Solo in Kenya valgono più del 40% del PIL. Qui è nata Mpesa, nota piattaforma che ha dato il via alla diffusione delle transazioni mobili.

Nessuno smartphone richiesto: tramite sms si può inviare e ricevere denaro, poi convertibile in contanti se necessario. Il merito è, infatti, aver aperto le porte del sistema economico a chi non dispone di servizi bancari, carenti e poco capillari nel continente, e agli utenti non connessi, come quelli delle zone rurali, attori fondamentali della rivoluzione digitale africana.

La popolazione africana è destinata ad aumentare di 2.5 volte entro il 2050, superando i 2 miliardi di abitanti. In questa prospettiva, scontato a dirsi, è fondamentale il settore agricolo, la cui produttività dovrà incrementare esponenzialmente. Da maggio 2019 è entrato il vigore l’accordo per l’Area africana di libero scambio (non ancora operativa), ratificato man mano da tutti i Paesi del continente (tranne l’Eritrea), che elimina le tariffe doganali sul 90% delle merci in transito interno.

Sarà proprio l’agricoltura a beneficiarne per prima, e a darle un ulteriore e necessaria spinta ci provano le tecnologie digitali. In Uganda un contadino ha difficoltà con la crescita della piantagione di fagioli. La sua zona ha una scarsa copertura internet ma non importa. Dal cellulare, tramite sms, invia un quesito sul suo problema. Da migliaia di chilometri di distanza riceve una risposta da un altro contadino. A connettere i due è WeFarm, una piattaforma che conta circa 2 milioni di agricoltori che condividono le proprie conoscenze. Il servizio, disponibile in Uganda, Kenya e Tanzania, «sfrutta l’intelligenza artificiale per potenziare quella umana». Una volta ricevuto l’sms dal primo utente, la tecnologia di WeFarm lo analizza in base alla lingua (oltre all’inglese il sistema ne supporta alcune locali: luganda, swahili e nkore), e il contenuto, indirizzandolo agli utenti il cui profilo di competenze risponde alle esigenze del caso. Ma prima di ricorrere alle tecnologie 4.0, la semplice digitalizzazione dei dati, come quelli sul clima, è fondamentale. In Mozambico, solo pochi anni fa, l’Istituto Nazionale di Meteorologia ha informatizzato i propri archivi al misero costo di 50mila dollari, consentendo un miglioramento nella pianificazione dei progetti di sviluppo agricolo del Paese. Una buona pratica ancora poco seguita nel continente.

Un internet cafè a Nairobi

Riguardo alla politica, invece, la situazione è controversa. Molte democrazie africane sono ancora singhiozzanti e la digitalizzazione dei media ha portato un certo beneficio. A partire dal 2010 ne è esempio la primavera araba, rinforzatasi e diffusasi anche grazie alla forza di aggregazione della rete. Ma secondo l’economista Gaetano Fausto Esposito, rottamate le classi dirigenti, gli strumenti digitali non sono bastati per la creazione di nuove identità. I modelli virtuosi comunque non mancano: nel 2015 in Senegal nasce AfricTivistes, piattaforma di cyberattivisti africani che promuove la democrazia partecipativa, alla quale sono seguite altre iniziative in Africa occidentale.

Eppure l’equazione più tecnologia = più democrazia sembra non reggere. La scrittrice Nanjala Nyabola la confuta nel suo libro Digital Democracy, analizzando il caso del Kenya, dove le elezioni del 2017 sono state annullate dalla Corte Suprema per interferenze nel sistema di voto elettronico. Anche i governi, infatti, padroneggiano la rete e la manipolano, talvolta anche grazie ad agenzie straniere di analisi dei dati, mai legalmente responsabili. A questo proposito Nyabola parla di «colonialismo digitale» sostenendo che «internet replica i contorni di ciò che c’era prima». È opinione diffusa che le tecnologie digitali possano aiutare l’Africa a colmare il gap di sviluppo. Ma in un continente ancora gravemente carente per infrastrutture, sanità e soprattutto sistemi educativi, fino a che punto non è chiaro.

La scrittrice Nanjala Nyabola, autrice di «Digital Democracy»