In un mondo che va progressivamente chiudendosi, accartocciandosi su se stesso escludendo ogni presenza e lasciando intatto solo il «rifugio casa», la Quadriennale d’arte 2020 invece si apre, snodandosi in trentacinque sale del Palazzo delle Esposizioni, raccogliendo su di sé l’atmosfera sospesa e un po’ allucinata di Roma e sfidando la sorte di un lockdown non impossibile. Soprattutto, si apre all’insegna di una parola divenuta impronunciabile, nemica del proprio pensarsi al sicuro: Fuori.

È QUESTO IL TITOLO, infatti, con il quale i due curatori Sarah Cosulich e Stefano Collicelli Cagol presentano al pubblico (fino al 17 gennaio 2021) la loro mostra polifonica, sbocciata attraverso tre anni di lavoro a tappe fra workshop itineranti, incontri, bandi: una rassegna che tenta di mappare gli itinerari di diverse generazioni italiane di artisti e, in gran numero, artiste, coniugando le loro ricerche con la storia della Quadriennale stessa.
Quel Fuori, spiegano nel catalogo edito da Treccani (che celebra l’oggi con una sventagliata di immagini che vanno dalla spending review di Monti al disastro della Costa Concordia e del ponte Morandi, passando per la testimonianza vivente di Liliana Segre, il tappeto di alberi caduti nelle foreste del nord, la solitudine del papa e di Mattarella durante le celebrazioni in piena pandemia) sta a indicare «una posizione eccentrica, una postura inclinata, di mutua relazione con l’altro da sé».

IN REALTÀ, È DIFFICILE tessere un filo che riesca a connettere tutti gli ospiti dell’esposizione – quarantatré per più di trecento opere, con diciotto produzioni ad hoc – ma Cosulich e Cagol non temono gli effetti del «caos positivo». E per orientarsi tra le figure disegnate dalla matassa chiamano in campo Donna Haraway e l’arte al tempo del Chthulu, affondando l’immaginario nelle radici di quel libro della filosofa – Chthulucene: Sopravvivere su un pianeta infetto – che invita a cambiare la percezione del nostro esistere, in una relazione stretta con la selvaticità di piante e animali. L’artista e coreografa Simone Forti amalgama il suo corpo agli elementi naturali e rotola tra sabbia e ghiacci, resistendo e lasciandosi andare. Alla libertà umana corrisponde però la cattività degli altri, come quella del gorilla che Forti disegna allo zoo, documentando l’immobile e triste «posa da confinamento».

IN QUESTA PROSPETTIVA in rapido mutamento, che spinge l’umanità ai margini allontanandola dal centro, il corpo è spesso assente alla Quadriennale, ma in molti lavori è evocato attraverso atti organici imprescindibili. Come il prezioso respiro, che permea le nostre angosce quotidiane e che viene ricordato sia all’esterno del Palaexpo – dall’imbrunire all’alba, con la rimodulazione delle luci che seguono il ritmo del fiato dell’artista Norma Jeane – sia all’interno, nell’installazione storica di Cloti Ricciardi qui riproposta (Respiro, 1968-69).
La vita è multiforme e costellata di imprevisti. All’insostenibile crudezza della nascita raccontata nelle fotografie di Lisetta Carmi della sua serie Il parto, fa eco la liquidità poetica dei fluidi vegetali nella tenda allestita da Chiara Camoni, che registra le impronte di erbe e fiori come fossero apparizioni di fantasmi rimaste intrappolate sulla seta.

LA VOLONTÀ di un tracciamento di tutti gli abitanti del pianeta per stringere un nuovo patto tra viventi finisce anche per scardinare i confini imposti del desiderio erotico (tema che prevede un percorso a sé nella mostra) e per ri-ambientare i corpi in sistemi non binari, come ci dice il collettivo Tomboys Don’t Cry, che scompone la fisicità riassemblandola in dinamiche queer e transfemministe.
Così, se da una parte si assiste alla messa in scena della decolonizzazione dell’immaginario, dall’altra, i Daar (Sandi Hilal e Alessandro Petti) cercano di fondare un ente preposto alla decolonizzazione delle architetture e nuclei urbani del fascismo. L’asse è quello che vede Asmara con le sue costruzioni nate durante l’occupazione italiana e otto villaggi disabitati della Sicilia, borghi inaugurati dal vero Ente di colonizzazione istituito nel 1940.
D’altronde, se i due curatori indicano la storia come territorio da indagare insieme al presente, la Quadriennale non può rimuovere il suo battesimo nazionale, la sua origine in epoca mussoliniana. A inchiodare la memoria sono Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi con la loro manipolazione di fotogrammi e sequenze tratte dagli archivi del Novecento. In Pays Barbare (2013), con colorazioni stranianti zoom e tagli, narrano le parate, la propaganda e il dominio fascista in Africa.
Infine, quel Fuori auspicato dalla rassegna torna in maniera poetica con le lettere di Giulia Crispiani. Spedite durante la prima emergenza sanitaria di marzo, sono riportate qui con le risposte dei destinatari come fossero pagine di un archivio da riordinare. Alcuni «desideri» sono ricamati, a richiamare indietro il mondo perduto con un gesto apotropaico.