Anno felice il 2018 per chi può costruirsi attraverso un viaggio nei festival il godimento delle vette del cinema. Il Cinema Ritrovato di Bologna, con i suoi programmi sempre più bulimici, in cui non c’è mai una personale o retrospettiva completa ma un’infinità di assaggi di rassegne possibili, ha delineato nella sua storia incontri con cineasti di cui è impossibile non desiderare una conoscenza più completa. Per esempio qualche anno fa vi fu un omaggio a Leo McCarey (preceduto da altre, centellinate visioni di suoi capolavori), ed ecco che quest’anno il Festival di Locarno gli dedicherà una personale il più possibile completa. Il più possibile perché non tutto nell’universo internazionale delle cineteche favorisce questi desideri, e film visti qualche anno fa a Bologna in bellissime copie 35mm vengono ormai resi disponibili solo in cosiddetti restauri digitali.

Rendiamoci conto dunque che non solo nella politica le occasioni si perdono se non colte al momento giusto, e non solo nella vita di ciascuno gli amori non vissuti non si ripropongono, ma anche nella nostra vita di spettatori si offrono occasioni irripetibili. Vorremmo fosse questa consapevolezza ad aver convinto i due maggiori festival di ricerca operanti in Italia a collaborare, in dimensioni mai avvenute sinora, a una rassegna, quella dedicata a uno dei massimi cineasti ancora da scoprire, John M. Stahl.

A Bologna, che negli anni scorsi ne presentò già alcune meraviglie nella pluriennale rassegna Universal, si stanno per vedere un film muto e sei film sonori, mentre alle Giornate di Pordenone, in ottobre, si vedrà una decina (speriamo anzi dozzina) di suoi film muti, quasi tutti quelli conservatisi. Ovviamente i film sonori conservatisi sono molti di più, e bisogna dare atto al curatore Ehsan Khoshbakht di aver fatto un’ottima scelta nei suoi dolorosi limiti numerici. Il critico, di cui negli anni scorsi ammirammo a Bologna le capacità rabdomantiche verso il natio cinema iraniano, si conferma di un grande sguardo apolide nel trattare un cineasta tra i meno conosciuti.

Scrive bene che finora nelle storie del cinema Stahl era un regista da note a pie’ di pagina che ne segnalavano i film oggetto di un remake da parte di Douglas Sirk, Imitation of Life (1934) e Magnificent Obsession (1935). C’è persino un terzo remake sirkiano di un film stahliano, ma alquanto squilibrato nel rapporto: un film poco convincente di Sirk (Interlude) che rifa un film stupendo di Stahl, When Tomorrow Comes (1939), tra quelli in programma a Bologna. Il rapporto Stahl-Sirk è tra le convergenze o corrispondenze tra cineasti che meglio fanno cogliere «che cos’è il cinema», per evocare la perenne domanda di André Bazin. Quando scoprimmo Sirk negli anni 70 ce ne colpì la forza barocca, parallela ma diversa da quella del certamente superiore Vincente Minnelli, ma nella quale si conservava una linea di purezza che i barocchismi isterizzati di Aldrich e Fuller forzavano fino a perdere la bussola (eviterei invece del tutto confronti col barocchismo concettuale di un Orson Welles).

I cinefili degli anni 70 diedero un’occhiata ai premake di Stahl più che altro per curiosità, pensando di trovarsi davanti a dei film di canovaccio narrativo come lo sono i film hollywoodiani quando sono standardizzati, da pura macchina produttiva. Oggi dobbiamo essere grati a Sirk per averci introdotto a un cineasta non meno (e forse più) grande, che conserva la purezza di sguardo del cinema muto, scoprendosi degno compare di Allan Dwan e Leo McCarey. Il cineasta era sfuggito anche alla rivista di cinema più importante di tutte (senza nulla togliere ad altre), «Présence du cinéma» nei cui sommari troviamo la più bella mappa di cinema cui vale guardare tuttora.

Ma i critici macmahoniani erano spettatori contemporanei: riconobbero meglio i cineasti più grandi tra anni 50 e anni 60, mentre Stahl era morto nel 1950, e i suoi film del dopoguerra sono nel ricordo meno convincenti. Bologna infatti si ferma al 1945, ma riteniamo si debba rivedere anche lo Stahl posteriore. Le ricerche di «Présence du cinéma» sono tuttavia ben aggiornate nel dizionario dei film di uno dei suoi massimi critici, Jacques Lourcelles, uscito nel 1992 e di cui si attende con ansia la versione ampliata. Quanto scrive Lourcelles sulla costellazione tra la purezza di Stahl, il barocchismo ante litteram di Borzage e le fratture di racconto di McCarey è tra le lezioni maestre della critica cinematografica.

Come vorremmo che Lourcelles ci raggiungesse a Pordenone per vedere l’ultimo dei muti, In Old Kentucky, con l’attore ingiustamente dimenticato James Murray, visto l’anno scorso come coprotagonista dell’altrettanto stupenda Eleanor Boardman in The Crowd di King Vidor. Ecco, Vidor è un altro generatore di sublimi barocchismi. La purezza di Stahl può solo a uno sguardo superficiale apparire piatta, contiene invece la più alta forza di cinema. Il suo transito (dopo i film muti autoprodotti) dalla Universal degli anni 30 alla Fox degli anni 40 (con tappe senza successo alla M-G-M e alla Columbia) reca in sè un’estensione di registri infinita. Alla Fox egli s’incrocia col celato barocchismo di Henry King, altro cineasta tra i più grandi.

Corriamo dunque a Bologna, dove tra un assaggio di tortellini e uno di Stahl godremo meraviglie. Non è l’unica cosa del programma a meritare segnalazione, torneremo su Marcello Pagliero, con ahimè solo quattro titoli, due italiani e due francesi. C’è poi una rassegna Fox, con Ford, Walsh e magnifici minori, che ben estende il percorso stahliano. E un bel viaggio attraverso il colore nel cinema, da Hitchcock a Minnelli fino a due film di John Boorman (uno dei massimi cineasti viventi), dove l’ultimo Stahl in programma, Leave Her to Heaven, in Italia splendidamente rititolato Femmina folle, diventa con la fotografia di Leon Shamroy, la musica di Alfred Newman, il corpo dipinto e insieme carnale di Gene Tierney uno dei momenti più sublimi di quanto si possa donare al nostro sguardo.