Da un po’ di tempo, sulla spinta degli effetti psichici della pandemia, è nata una spinta per l’“assistenza psicologica” generalizzata. L’insistenza sull’importanza della psicologia cerca di bilanciare il potere della biologia. Tende, nondimeno, in parte, a ricalcare le strategie espansive del modello biomedico che ha sconfinato nel campo della vita erotica, affettiva e relazionale, pretendendo di dettare le regole della sua condotta sana. Il progetto della psicologia come assistenza generalizzata, rischia la subalternità alla cultura biologista, al suo spirito riduzionista totalizzante.

L’essere umano ha una complessa costituzione biologica, psichica e sociale la cui conoscenza richiede una grande molteplicità di saperi che si interrogano, dialogano, si arricchiscono reciprocamente, attraverso i loro conflitti e contraddizioni, si integrano in una visuale condivisa, si divaricano creando visuali nuove. Il sapere è fondato sulla tensione che tiene insieme i singoli campi che lo compongono. È multiprospettico, la volontà di compattarlo in un sistema centralizzato, di ridurlo in una prospettiva unica, è alienante.

Dire che i motivi della cosiddetta “sofferenza mentale” sono biologici, sociali, psichici e possono essere studiati nell’ambito della loro complessa interazione usando strumenti conoscitivi diversi ma complementari, fa parte del buon senso scientifico ed è utile per impostare un approccio multidisciplinare di cura. L’invenzione di un dominio conoscitivo bio-psicosociale unificato è, invece, un’operazione difensiva onnipotente nei confronti della realtà e della sua resistenza alla nostra pretesa di costruirla come vogliamo.

La dimensione transdisciplinare non uniforma in un tutt’uno le conoscenze interessate. Mette a fuoco un’area di studio secondo un’angolazione trasversale, ma lo fa solo nella misura in cui riconosce il suo debito a ciò che è lasciato fuori e si fa mettere in discussione da esso.

C’è una parte della psicologia, quella che si appella a un generico bisogno di sostegno e vede nel disagio collettivo un’opportunità di mercato, che da una parte si appoggia strumentalmente al “potere forte” della biologia e dall’altra immagina con tanta ingenuità, e altrettanta sufficienza, di poter ridurre il sapere sulla società in pochi schemi elementari. Mima le procedure tecniche della scienza, puntando a un consenso mediatico che suppone basti a legittimarla.

La psicologia è il sapere sulla psiche. Dovrebbe studiare il suo lavoro di trasformazione della nostra relazione con il mondo, che la trasforma, e non solo le sue strutture, prestare attenzione ai fenomeni largamente inconsci che sorreggono le sue manifestazioni evidenti, conoscere le varianti e le variabili del suo funzionamento, accanto alle costanti.

Spesso è usata per indicare i nostri processi mentali e emotivi, ma la cura del malessere psichico non è l’applicazione tecnica di principi derivanti dalla loro conoscenza in superficie; richiede una dimestichezza con la profondità delle stratificazioni dell’esperienza umana e con la variabilità soggettiva delle sue espressioni. La psicoterapia non può diventare tout court “assistenza psicologica” se non al prezzo di una sua banalizzazione.
L’idea dì un “benessere psicologico”, che degli esperti dovrebbero garantire, intervenendo arbitrariamente in ogni settore della nostra vita, pubblica e privata, per stabilire quale è il sentimento o il comportamento giusto per stare bene, è demagogica e rischiosa.

La cultura del buon vivere non è privilegio della psicologia o della psicoanalisi, ma patrimonio storico di tutte le scienze umanistiche (a partire dalla filosofia), della letteratura, dell’architettura, dell’arte (in tutte le sue forme), dei nostri spazi di conversazione e dei luoghi dove ci incontriamo eroticamente e affettivamente.