La prima edizione della Biennale di Oslo (per una durata di cinque anni, dal 2019 al 2024) ha un prologo che risale al 2013 quando l’agenzia Oslo Pilot, incaricata dall’amministrazione cittadina di delineare una linea operativa per la rassegna, puntò sulla valorizzazione degli spazi pubblici e sulla ricognizione delle collezioni municipali. La crescita immobiliare della capitale scandinava rendeva disponibili un parco di aree urbane dismesse e una mole di opere d’arte stoccate nei depositi comunali. Nel 2015, ci fu un folgorante trailer con l’installazione House of Commons dell’artista norvegese Marianne Heske: un edificio rurale spostato davanti al parlamento norvegese creò – tramite quel semplice gesto di contiguità – un punto forte di critica istituzionale. La Norvegia estremamente legata alle risorse petrolifere rivisitava il suo passato recente, delineando la linea cara ai curatori Eva Gonzalez-Sancho Bodero e Per Gunnar Eeg-Tverbakk.

OGGI LE ATTIVITÀ della Biennale riposano sulle medesime questioni, generando una risposta decisamente situazionista: il funzionamento di un lavoro d’arte e le sue possibili modalità di confronto con lo spazio pubblico e istituzionale che lo produce. Nel programma quinquennale, i lavori oggi visibili/invisibili costituiscono un primo set di interventi. Invece di agire come semplice sfondo, la città diventa materiale artistico.
In The Viewers dell’artista francese Carole Douillard, un gruppo di autori si riunisce all’improvviso e rimane immobile per un determinato periodo di tempo. Gli stessi individui appariranno poi in undici luoghi diversi durante tutta l’estate. Teatro della performance saranno la piazza del Governo, l’Y – Block destinato alla demolizione dopo l’attacco terroristico di Anders Breivik, con un piano che complica l’operazione perché l’edifico ospita un murales di Picasso risalente agli anni ’70.
Il tetto dell’Opera House sul fiordo, diventato il nuovo belvedere della città, è un altro punto in un contesto che cambia sia la definizione del lavoro che la reazione del pubblico. Di fronte al murales di Picasso sarà probabilmente letto come un atto di resistenza e sul tetto dell’Opera si proporrà come riflessione sulla nuova destinazione turistica-culturale di quest’area. Il nuovissimo museo Munch e l’altrettanto recente Biblioteca nazionale riplasmano lo skyline e politica culturale di Oslo. Il lavoro di Marianne Heier And Their Spirits Live On – presentato in anteprima all’Accademia di Brera e ora in una delle sedi dismesse del Museo nazionale – prolunga questa riflessione sulla funzione museale (storica e contemporanea).

LA COSTRUZIONE di un nuovo edificio, mammout, per il museo che centralizzerà tutte le collezioni pubbliche a partire dal 2020 fa riflettere sul destino da Eldorado culturale della capitale. Carattere performativo e smaterializzato per la più parte degli interventi. La Biennale disegna una filosofia espositiva nella quale è praticamente abolito il white cube, sola eccezione è la splendida installazione dell’americano Gaylen Gerber in quello che fu lo studio di Edward Munch, a Ekely.
È alla psicogeografia dei luoghi che tutti si affidano, dal quartier generale al n.2 di Myntgata, dove sono ospitati gli studi degli artisti coinvolti nel progetto, fino agli svincoli autostradali delle periferie. Con la sigla OSV, oslo collected works – il collettivo formato dall’artista Jan Freuchen, lo scrittore Sigur Tenningen e l’architetto Jonas Hogli Major – ha re-installato un padiglione con alcune sculture prelevate dai depositi cittadini. La copia cinquecentescadi un cinghiale mediceo dialoga con la malinconica modernità norvegese in via di demolizione, proiettandolo in una diversa narrazione. I lavori prodotti dalla Biennale entreranno probabilmente nelle collezioni cittadine come curiose creazioni smaterializzate.

SI VA DALLA BIBLIOTECA di libri viventi dell’artista Mette Edvardsen alla Migrant Car di Ed D’Souza – il modello più popolare di vettura indiana una Hindustan Ambassador costruita in un garage cittadino. Da non perdere, anche il primo episodio della pièce «brechtiana» del collettivo Rose Hammer, in scena al Paflugen Perlen, dove nella Norvegia occupata dai nazisti si disegna il futuro politico di quella odierna.