Nata a Salamanca e immigrata a pochi mesi in Francia, Marie Rose Moro ha mantenuto nella sua formazione e nella vita professionale il legame con le sue origini altre, mettendo insieme studi di filosofia e di medicina, e un’identità di psichiatra infantile e di psicoanalista. Allieva di Serge Lebovici per la psicoanalisi infantile, attraverso Tobie Nathan è entrata in contatto con l’etnopsicoanalisi, disciplina nata dall’incontro fra psicoanalisi ed etnologia e centrata sul metodo complementarista, che il suo fondatore George Devereux ha introdotto per studiare fenomeni complessi, oscillando fra gli strumenti epistemologici di discipline diverse come la psicoanalisi e l’antropologia.

Attirata dalla vulnerabilità e dai bisogni specifici dei figli dei migranti, Marie Rose Moro ha ideato dei servizi di consultazione transculturale destinati alle famiglie migranti con i loro figli, prima presso l’Ospedale Avicenne a Bobigny, e successivamente presso la Casa degli Adolescenti di Cochin, al centro di Parigi. In queste strutture l’approccio terapeutico è imperniato sulla differenza culturale e linguistica di un gruppo di terapeuti e dei pazienti con i loro accompagnatori. Ciò ha permesso a Marie Rose Moro di sviluppare un approfondito e originale orientamento teorico-clinico ai traumi e alle vulnerabilità dei giovani migranti e delle loro famiglie, ma anche al potenziale creativo che l’esperienza della migrazione può attivare, diventando così un’autorità mondiale nel campo della clinica transculturale. Per parlare di questi temi è stata invitata sabato nell’ambito del convegno «Migranti e loro destino» al Centro di psicoanalisi romano.

Quali sono i problemi culturali e politici più urgenti che si trova a affrontare nel suo lavoro quotidiano con i bambini e gli adolescenti immigrati?

Il problema più urgente è quello di permettere un reale accesso a forme di assistenza psicologica, psichiatrica e psicoterapeutica ai bambini dei migranti e ai loro genitori. In effetti, dovunque in Europa queste famiglie sopportano discriminazioni e equivoci che finiscono per ritardarne la cura, e a volte la rendono impossibile. Mentre studi europei, ma anche canadesi, hanno evidenziato come si sarebbero dovuti adeguare i nostri dispositivi di cura, la realtà mostra che questo adattamento si pratica assai poco, senza tenere conto di ciò che risulta effettivamente efficace e, in buona sostanza, di quelli che sono i pregiudizi culturali e sociali. Bisognerebbe ingaggiare in tutti i luoghi di cura traduttori (che facciano da interpreti alle lingue) ma anche mediatori culturali (che favoriscano i legami tra le diverse culture), invece tutto ciò è confinato all’eccezione e viene considerato un lusso, oppure è appannaggio di alcuni specialisti. Così come, a volte, funzionerebbe meglio organizzare delle consultazioni di gruppo (con due o tre terapeuti) piuttosto che vis à vis, ma i terapeuti qui non sono sufficientemente formati per affrontare questioni transculturali.

Lei è consulente di Médecins sans Frontières. Può dunque dirci quali sono le manifestazioni più ricorrenti di stress post-traumatici in chi è sopravvissuto a torture e persecuzioni?

Sì, lavoro con Médecins sans Frontières dal 1989. Nei contesti di guerra, e anche quando riceviamo i rifugiati qui in Europa, constatiamo effetti molto significativi delle torture e delle persecuzioni sia sul corpo che sulle funzioni psichiche. Inizialmente, nella fase acuta, osserviamo tutte le patologie legate allo spavento, al dolore e alla insicurezza. Molto spesso il sonno è compromesso dalla paura e dalla difficoltà ad addormentarsi, si hanno incubi ricorrenti che rimandano alla scena traumatica o a qualche suo particolare, incubi che non permettono di elaborare l’angoscia ma anzi la accentuano. Anche la vita diurna viene alterata in relazione alle singole persone e alla gravità di quanto è stato vissuto, così che tutte le maggiori funzioni vitali risultano colpite: il mangiare, (per cui si sviluppa una anoressia o a volte una bulimia compensativa), il fatto di uscire di casa (che si accompagna a fobie e flash back legati a fatti quotidiani che ricordano gli eventi traumatici), il provare piacere in cose che prima si amava fare. Spesso notiamo disturbi ansiosi molto gravi e depressioni secondarie accompagnate talvolta da sensi di colpa per essere sopravvissuti a avvenimenti tanto gravi.

La schizofrenia è molto in aumento presso le minoranze etniche, religiose e culturali. Nota questa patologia soprattutto presso gli adolescenti migranti?

Che io sappia, non esistono studi che evidenzino una maggiore incidenza della schizofrenia presso i migranti o i loro figli, né ce ne sono che mostrino una maggiore frequenza di casi di autismo presso i bambini dei migranti. In compenso, ci sono molte ricerche inglesi, canadesi, americane, e un nostro studio francese (Radjack et coll., 2012) che mostra come la diagnosi di schizofrenia sia molto più frequente presso i migranti adulti; ma questa sovrastima diagnostica è legata a quelle che vengono chiamate misdiagnosi, ossia veri e propri errori interpretativi legati al fatto che non si tiene conto della lingua e delle rappresentazioni culturali dei pazienti. I rischi di errori diagnostici vengono inoltre aumentati dalla attivazione di un controtranfert negativo dovuto alla nostra ignoranza di questioni culturali e linguistiche per noi lontane, che si unisce alla attitudine razzista delle istituzioni. Da qui l’importanza che ha la formazione dei terapeuti e di coloro che hanno, in generale, compiti di assistenza

I disturbi mentali motivati dall’esilio, dalla distanza, dal lutto sono legati alla rappresentazione del sé? E possono essere considerati di tipo depressivo?

 

L’esilio può provocare una rottura del proprio involucro culturale e psichico, risolvendosi sia in un trauma che riattiva eventi antecedenti, sia nell’après coup di qualcosa che si sta compiendo qui e ora e che ripropone il trauma dell’esilio. I momenti di maggiore vulnerabilità dei genitori sono la nascita o l’adolescenza del loro figli, ma anche fratture o lutti che si consumano durante l’esilio. È difficile elaborare una perdita da soli, senza il proprio gruppo di appartenenza e senza l’aiuto della famiglia e della comunità; e lo stesso vale per ciò che riguarda la crescita dei figli. Ed è perciò che la condizione transculturale è una situazione a rischio; ma i migranti sono persone coraggiose, pronte a imparare come trovare in se stessi le risorse necessarie.

In che modo una persona, e in particolare un bambino, piuttosto che rinchiudersi in se stesso può aprirsi alla ricchezza dell’alterità dell’altro una volta arrivato nel «nuovo mondo»?

È evidente che proprio i problemi relativi alla elaborazione delle sfasature culturali costituiscono, tanto per i bambini che per i loro genitori, la vera posta in gioco della migrazione. Per questo penso ai figli dei migranti come a meticci che devono imparare a elaborare armonicamente la loro filiazione con il luogo al quale approdano e le affiliazioni trasmesse loro dai genitori. La riuscita di questo métissage è la chiave per vivere felici e per fare della propria vulnerabilità transculturale una risorsa di creatività infantile; ma questo implica, innanzi tutto, l’accettazione della alterità. Elaborare l’alterità presuppone, per i bambini, la possibilità di riconoscere la propria lingua materna, la propria storia familiare e collettiva, e questo serve per resistere alle discriminazioni che potranno subire. La società di accoglienza, infatti, non è sempre così ospitale come la si vorrebbe. Da queste condizioni di accoglienza dipende anche la capacità dei bambini di elaborare il loro meticciato.

Una delle più grandi difficoltà è rappresentata dalla lingua straniera. In che modo le questioni linguistiche influiscono sulla formazione del sé in una situazione di esilio?

La questione della lingua, innanzi tutto quella materna degli adulti che sono emigrati ma poi anche quella dei bambini cui questa lingua è stata trasmessa, è molto importante. C’è in proposito un grande pregiudizio, denunciato da tutti i linguisti e da tutti gli psicologi, ma che è duro a morire. La lingua materna dei bambini non costituisce un ostacolo all’apprendimento della seconda lingua; al contrario, meglio si parla la propria lingua meglio ci si esprime e dunque meglio si parlerà la seconda lingua. I bambini sono in grado di imparare bene molte lingue, e questo non pone loro alcuna difficoltà, a meno che non si stabiliscano delle gerarchie tra i diversi idiomi. La lingua materna, con tutto ciò che essa veicola, permette una costruzione solida del bambino che, in seguito, affronterà il mondo esterno – in particolare quello della scuola e della cura di sé – ritrovandosi più forte e con maggiori risorse interne.

La difficoltà della lingua, del resto, si aggiunge a molte altre nel rendere difficile l’accesso all’assistenza pubblica, non è vero?

 

Sì, finché non si introdurrà la conoscenza delle lingue e delle diversità culturali nelle nostre istituzioni deputate all’accoglienza e alla cura queste non saranno né accoglienti né forniranno prestazio adeguate alle famiglie dei migranti e ai loro bambini; ma al di là della lingua, ci sono tante forme culturali e diversi modi di pensare e di fare che bisogna rispettare, in nome della universalità psichica.