«Ah dimenticavo! Ho un grande rimpianto: non aver mai lavorato con un regista italiano. Nel 1978, dopo alcuni anni di apprendistato teatrale, ricevetti due proposte per il cinema: André Téchiné mi voleva nel film Les soeurs Bronte e i fratelli Taviani nel loro Il prato. Scelsi Téchiné e la mia carriera decollò ma ancora oggi ripenso a come sarebbe stato lavorare coi Taviani e con attori italiani».

Pascal Greggory si lascia scappare proprio all’ultimo momento questo aneddoto ma il tempo è tiranno e il ricordo dello sfumato viaggio cinematografico in Italia termina qui. Non finisce però la lunga tournée europea dello spettacolo Le retour, piéce di Harold Pinter diretta da Luc Bondy, da poche settimane si sono concluse le rappresentazioni al Piccolo Teatro Strehler, e la compagnia all-star, oltre a Greggory troviamo Bruno Ganz, Louis Garrel ed Emmanuelle Seigner, continua a girare mezza Europa.

Tra un aereo e l’altro però, Greggory si lascia intercettare per una lunga ricognizione su quei lustri che separano il rimpianto italiano e l’ennesimo successo sulle platee di tutta Europa. Interprete volutamente consacrato a ruoli scandalosi e indecifrabili, anche grazie a un corpo naturalmente scisso fra ambiguità e peccato, Greggory ha attraversato buona parte del grande cinema d’autore degli 80 e 90, travalicando i confini nativi e donandosi a geni europei, ma di grande respiro francese, come Raoul Ruiz nel proustiano Il tempo ritrovato e Andrzej Zulawski in La fidélité, e alternando filmoni di cassetta, Nido di vespe di Florent Emilio Siri, all’intimità di autori come Jacques Doillon in Raja Ma la vera vocazione che traspare dalle sue parole è quella per il palcoscenico, luogo amatissimo e temuto, che lo vedrà corpo prediletto di Eric Rohmer, nelle sue poche ma incisive incursioni a teatro, e Patrice Chéreau, uno dei massimi esponenti del teatro francese contemporaneo, in una girandola di personaggi tormentati e fuori dagli schemi, come d’abitudine.

Patrice Chéreau ed Eric Rohmer sono stati i suoi due nomi tutelari, prima al teatro e poi al cinema. Che cosa ha imparato da questi due maestri nella sua pratica attoriale?

Sono stati due periodi essenziali della mia vita, molto diversi fra loro ma capaci di completarsi alla perfezione. Rohmer è stata la mia adolescenza mentre Chéreau la mia maturità.Tra l’altro, quando lo incontrai, Patrice non amava il cinema di Rohmer e sono stato io a fargli cambiare idea ma non ho mai saputo se l’amore fosse corrisposto. Eric è stato una sorta un padre spirituale, forse anche perché assomigliavo tantissimo a suo figlio, un giorno addirittura mi mostrò la fotografia del figlio che teneva nel portafogli gridando ’Sei tu!’ e devo la mia vera formazione teatrale a lui, avendo recitato in due piéce: una scritta di suo pugno, Le Trio en mi bèmol, e in Caterina di Heilbron del suo amatissimo Heinrich Von Kleist. Eric era un regista che amava alla follia i suoi attori e nella sua scelta di interpreti giovani e quasi amatoriali era molto simile a Robert Bresson. Quando qualcuno gli faceva notare che era un grande artista, Eric amava rispondere ’Non sono un’artista ma un artigiano e l’artigiano è qualcuno che ama la sua arte’ e soltanto anni dopo ho capito che io e gli altri attori dei film di Rohmer eravamo artigiani. Grazie a Patrice invece ho scoperto i pericoli e gli abissi di questo mestiere e ho imparato che con un corpo o con una voce si possono trasmettere anche i sentimenti più cupi e drammatici, lavorando insieme a lui in ben cinque film e quattro spettacoli teatrali. Qualcosa però credo li accomuni: in Rohmer c’è quasi sempre una sottile volontà di raccontare un amore morente e questo lo lega a Chéreau, un regista che ha sempre sentito il bisogno di raccontare la fatalità della fine di un sentimento. Eric Rohmer però è stato un cineasta molto più politico rispetto a Chéreau: ho fatto un film con lui nel 1992 che si intitolava L’albero il sindaco e la mediateca, lui lo considerava il suo vero film politico, ma ritengo che tutta l’opera di Rohmer sia profondamente politica, in senso artistico, perché denunciava spesso le condizioni di vita in rapporto ai malanni della società. Patrice invece è interessato alla politica come gesto artistico capace di fornire materiale destinato a rimanere nel tempo.

Tempo fa ha dichiarato «Nei margini del cinema francese io respiro». Una frase che cela un sottile rimpianto o un’affermazione d’orgoglio?

Una semplice constatazione. . Tornando al margine, confesso che è un concetto che adoro sotto tutti i punti di vista, musica, arte, pittura, e ritengo che le correnti artistiche più marginali siano quelle più ricche di futuro. I grandi autori «marginali» sono stati degli assoluti provocatori ed è la provocazione che fa progredire la società.[do action=”citazione”]Stando nei margini si riesce a respirare meglio, soprattutto se sei un attore e se la tua missione è non farti incastrare in codici ben precisi. Ho fatto principalmente film d’autore ma anche lavori più commerciali per aver una sorta di bilanciamento mentre a teatro sono molto più selettivo, direi più radicale, perché non riuscirei mai lavorare nei teatri più commerciali[/do]

A proposito di innovatori, la piéce di Harold Pinter risale al 1964. Quale crede che sia l’attualità di quest’opera?

Gli anni 60 sono completamente diversi da quelli che stiamo vivendo oggi, soprattutto da un punto di vista economico. Tutta l’Europa del dopoguerra ha conosciuto un periodo di grande prosperità, in Francia lo definiamo Les Trente Glorieuses, e negli anni 60 vissuti da Pinter cominciava quel flusso incredibile di denaro che avrebbe poi portato al capitalismo. Harold Pinter denunciava proprio questo, con grandissimo anticipo rispetto ai suoi contemporanei, profetizzando il folle consumismo che noi oggi conosciamo molto bene. In Le retour infatti i personaggi di estrazione popolare parlano di soldi in modo ossessivo, quasi come adesso, e il tutto si svolge agli albori degli anni 60. Anche nello studio dei caratteri femminili Pinter era avanti di circa trent’anni, in modo particolare in questa piéce: è la donna qui che prende il potere, una ex prostituta finta redenta che ritorna alla prostituzione ma alle sue condizioni. Infine la lingua di Pinter ha una cadenza e una musicalità ancora modernissime.

Non a caso Luc Bondy è anche un apprezzatissimo regista di opere liriche…Come Patrice Chéreau e Werner Schroeter, altri grandi registi di cinema e teatro con cui lavorato. Anche lei sente una particolare affinità con la lirica?

Non sono un fanatico dell’opera ma adoro tutta la musica. Il mio mestiere d’attore mi ha portato verso la lirica ed è stato il destino a farmi incontrare prima Patrice e poi Werner, due esseri così diversi ma con qualcosa di potente in comune: la stessa idea di un mondo pieno d’amore ma un amore crudele, distruttore e autodistruttivo. Questa è la grande ossessione artistica di Patrice, e del cinema di Schroeter, il raccontare la nascita e la demolizione di un sentimento come qualcosa di inconscio e inevitabile. Ma Werner narrava questa ineluttabilità in maniera romantica e barocca, essendo tedesco, mentre Patrice in modo molto più cartesiano, quindi francese.