A proposito di questa vicenda tragica, accaduta nel posto dove vivo, ha ragione Don Vinicio Albanesi (della Comunità di Capodarco) quando dice che spesso: «La provincia è infida», perché copre, smorza, nasconde anche ambienti violenti, che andrebbero fatti emergere e contrastati con decisione. Quegli ambienti in cui la sottocultura razzista e neonazista viene spesso tollerata, considerata un puro fenomeno di costume. Finché non uccide.

Non è il primo episodio nelle Marche, non lo è a Fermo: nei mesi scorsi, le esplosioni davanti a chiese i cui parroci sono impegnati in accoglienza e solidarietà; l’uccisione di due lavoratori dell’est (che rivendicavano di essere pagati), da parte di un imprenditore della zona (che poi si è tolto la vita in carcere); tre anni fa, l’aggressione (sempre da parte di soggetti dello stesso ambiente fascistoide) contro un ragazzo eritreo; ancor prima, le scritte razziste contro la mensa della Caritas.

Un crescendo preoccupante. Ma l’ambiente di provincia attenua, copre. Per questo sono inopportuni gli inviti ad “abbassare i toni”, quando serve invece affrontare le contraddizioni, farle emergere. Qualche anno fa ho sentito, qui a Fermo, a proposito della penetrazione mafiosa, ripetere da voce autorevole il luogo comune dell’«isola felice», degli «episodi».

Che altro deve succedere ancora, per capire che, soprattutto nella società globale, le isole felici non esistono e, semmai, l’ambiente di provincia presenta più rischi di coltivazione, proprio perché i «toni bassi» coprono e nascondono? Viene da dire che nelle nostre piccole città la «banalità del male» è ancor più banale, perché più protetta, imbozzolata. Di fronte agli episodi (che, quando sono più di uno, cessano di essere tali), una parte della società civile reagisce, non c’è dubbio, ma un’altra si precipita ad omaggiare Salvini, che aveva appena attaccato i progetti Sprar e l’accoglienza dei rifugiati. C’è chi ha ucciso Emmanuel, ma c’è chi ha soffiato per anni sul fuoco mediatico e globale del razzismo. E ci sono ambienti sventati e malamente ideologizzati, nutriti da questa sottocultura dell’intolleranza e, appunto, della banalità disumanante, spesso «coccolati» da alcuni ambienti politici; non lo scrivo solo sulla base di un’analisi generale, ma perché conosco personalmente l’aggressore (in provincia ci si conosce, quasi tutti).

Questi soggetti assorbono e agiscono, senza avere gli strumenti per la mediazione necessaria; e se la responsabilità giuridica è personale e grave, quella politica e morale non è solo individuale. Nessuna città è, in sé, razzista; Fermo, in particolare, è stata una culla di solidarietà, come la stessa Capodarco dimostra; ma senza una controffensiva culturale dura e decisa (altro che «abbassare i toni») tutte possono diventarlo; perché quella sottocultura è egemone, e lo è diventata anche grazie ai cedimenti progressivi e generali.

Mercoledì davanti al Seminario di Fermo, alla veglia per Emmanuel, mentre Chimiary, distrutta da questa tragedia e da quelle che l’hanno preceduta nella sua giovane vita, ha cantato in lingua Igbo parole per il suo sposo ucciso, senza il quale non sa come continuare a vivere, ho pensato che se gli aggressori di San Benedetto del Tronto avessero chiesto a lei del Vangelo, avrebbe potuto spiegarglielo in due o tre lingue. Quando al mattino, davanti al reparto di rianimazione, l’ ho conosciuta e abbracciata, ho sentito addosso tutta l’impotenza dell’Europa e della sua storia; ho toccato con mano, sentendo quelle lacrime, ciò che già sapevo perfettamente: che questo Paese è peggiorato tanto e continua a peggiorare. Vedo la rabbia avvilita intorno a me, di quelli che tutti i giorni cercano di costruire accoglienza e diritti, e sento che l’avvilimento sarà più forte della rabbia (e persino della coscienza) se non si ricostruisce un fronte, uno strumento politico vero.

Il pericolo che persino l’indignazione diventi minoritaria è reale, spinta ai margini. Perché episodi come quello di Fermo sono destinati a crescere, se la cultura dell’umanità e dei diritti continua a farsi schiacciare in un angolo nobile, se non reimpara ad educare le masse (parole vetuste, lo so, anzi arcaiche; ma non è forse arcaica anche la violenza assassina?). Bisogna, forse, imparare a passare dalla pancia, per arrivare di nuovo alle teste.
Con la stessa forza (purtroppo impotente) con cui ho sperato che Emmanuel sopravvivesse, spero ora che il suo sacrificio segni una linea. Ci sarà il suo funerale domenica; stasera un presidio antirazzista nel luogo in cui è stato ucciso; l’Anpi, il Sindacato e tante associazioni hanno indetto una manifestazione di tutti i cittadini per martedì prossimo.

La gravità di un assassinio a sfondo razzista richiede che i toni li alzino, di livello, sia i cittadini che le istituzioni.

Cominciando dall’antifascismo, che non è una espressione del sanscrito antico, ma una cultura dei diritti, una necessità del presente, anzi del futuro, con l’aria che tira da Fermo alle metropoli europee ed americane. «Restiamo umani», condivido, ma non inermi o, peggio ancora, indignati ma inerti.