Il 6 aprile scorso è stato un giorno incredibile per i sudanesi e specialmente per coloro che vivono nella capitale, Khartoum. Per chiedere le dimissioni del presidente Bashir svariate centinaia di migliaia di persone (alcune fonti parlano di un milione) hanno partecipato a un oceanico corteo che ha intasato gran parte delle strade del centro.

VI SONO STATI SCONTRI con le forze di sicurezza e al termine della giornata si sono contati almeno 6 morti, tutti colpiti da pallottole sparate da agenti di polizia. In maggior parte però sono stati usati gas lacrimogeni nel tentativo di disperdere i manifestanti. Il ministro dell’Interno, Bishara Jumaa, informa inoltre che ci sono stati 2.496 arresti.

Ad ogni modo, la determinazione e l’enormità del corteo ha fatto sì che questo riuscisse a mantenere il proprio percorso e a raggiungere incredibilmente i palazzi del potere. In particolare, il corteo si è concluso dopo aver accerchiato il quartier generale dell’esercito. Da quel momento al calar del sole, e poi per l’intera notte, i manifestanti hanno invocato i militari di staccare la spina al regime di Bashir, al potere dal 1989. Ci sono stati canti e balli e molti hanno cenato in strada: vari gruppi si sono organizzati per portare acqua e cibo ai manifestanti, così da permettere la prosecuzione del presidio, tutt’oggi presente.

Secondo alcune testimoniante riportate dal Sudan Tribune, elementi armati dell’Agenzia nazionale d’intelligence (Niss) hanno intimato ai dimotranti di straiarsi a terra e hanno sparato in aria, ma i presenti si sono rifiutati di sgomberare la zona del sit-in.

IN BARBA ALLA PROTESTA, dopo dopo aver convocato una riunione straordinaria del Consiglio di sicurezza nazionale il presidente Bashir rifiuta di dimettersi. Tuttavia, per lui non sono certo giornate facili da quel 19 dicembre 2018 quando nel nord del Paese si dettero i primi fuochi di rivolta dovuti all’insostenibile carovita e ad uno stato sociale assente.

Come da principio, le cause della protesta restano di natura prevalentemente socio-economica: non c’è lavoro, la povertà continua a crescere e i prezzi dei beni alimentari sono incredibilmente volatili. Lo stato di salute dell’economia sudanese rimane quantomai precario con una moneta nazionale debolissima, un tasso di inflazione elevato, reti elettriche e di comunicazione poco diffuse, carenti infrastrutture stradali.

TRA LE RAGIONI dei manifestanti vanno però considerate anche le aspettative di una gioventù dinamica, privata di una reale presenza nell’arena politica e stufa di scontrarsi con la repressione poliziesca ogni qual volta tenta di far sentire la propria voce. Dunque, sebbene la rivolta sia scoppiata a causa delle deprivazioni materiali che la popolazione da troppo tempo soffre, specialmente nelle aree rurali, appare evidente come la “domanda politica” delle mobilitazioni urbane sia più ampia e connessa con lo spirito – mai sopito nonostante le gran botte ricevute – della Primavera araba. Sfidando divieti e censure, molti sudanesi vi fanno riferimento sui social network in commento ai video che riprendono le strade piene di gente: «Non è piazza Tahrir. È finalmente Khartoum!».

LE PROTESTE DI POPOLO e la ricerca di un appoggio nell’esercito richiamano due avvenimenti importanti del passato in Sudan: le mobilitazioni popolari con il supporto dei militati già si sono resi capaci di contribuire ad un cambio di governo. Nel 1964 le proteste cominciarono nel momento in cui studenti e polizia si scontrarono presso l’Università di Khartoum. L’indignazione e lo stato di agitazione che ne seguì diede presto forma a un più ampio movimento di protesta e così la dittatura militare di Ibrahim Abboud fu rovesciata.

Invece, il 6 aprile 1985 – la data del recente corteo non è stata dunque scelta a caso – le proteste scoppiarono dopo svariati anni di crisi economica. Anche in quell’anno, le mobilitazioni hanno saputo organizzarsi in un movimento dall’ampia base popolare e così facendo hanno dapprima messo in crisi e poi costretto Jafar al-Nimeiri a dimettersi, dopo solo undici giorni di manifestazioni.

IN CONFRONTO, l’attuale regime si sta dimostrando molto più difficile da abbattere. Sta sopravvivendo a ormai quattro mesi di proteste.
La strenua resistenza di Bashir è ben comprensibile: nel caso in cui perda il proprio incarico di presidente, sarà più difficile per lui continuare a fuggire alle accuse (di crimini contro l’umanità e crimini di guerra in riferimento al conflitto in Darfur) avanzate dalla Corte penale internazionale.