Quattro giorni di sciopero selvaggio degli autoferrotranvieri, 24 ore su 24, con un’adesione totale del personale, nonostante precettazioni e rischio di multe fino a 500 euro ciascuno. Questo dà il senso della determinazione in campo: mobilitazioni così non riescono se non per ragioni forti e condivise. Cortei con il freddo e il maltempo, blocchi dei caselli autostradali, un rapporto di solidarietà con altre categorie ugualmente colpite dal rischio privatizzazione. Infine la popolazione rimasta a piedi.

Anziani che non riescono ad andare a fare esami clinici oppure persone impossibilitate ad andare a trovare parenti all’ospedale o semplicemente al lavoro, insomma una città paralizzata da giorni. Eppure, nonostante il tradizionale mugugno genovese, non sembra esserci astio contro questa lotta. Sembra esserci la percezione della posta in gioco. Ascoltando i commenti per le strade, le trasmissioni radiotelevisive, persino il sondaggio on line del principale quotidiano locale, si coglie una maggioranza della città a fianco degli autoferrotranvieri. Cose d’altri tempi, oppure di questi tempi.

Fino a un paio di decenni fa entrare in una grande azienda, pubblica o privata, rappresentava la tranquillità per gli interessati e un privilegio non giustificato per il pensiero mainstream. Anche se qualcosa si era già incrinato con la privatizzazione/dismissione dell’Italsider alla fine degli anni Ottanta, entrare in una realtà industriale come Fincantieri, Ilva, San Giorgio, Elsag, Marconi, nella Compagnia Unica dei portuali, oppure ancora in un’azienda comunale per la raccolta dei rifiuti o per l’autotrasporto era sinonimo di stabilità e sicurezza sociale.

Oggi alcune delle aziende nominate non esistono più, altre sono in via di ristrutturazione, altre ancora stanno avviando un processo di privatizzazione e ridimensionamento. La mobilitazione degli autoferrotranvieri genovesi non si può comprendere senza leggere il contesto di deindustrializzazione e di destrutturazione del lavoro. Qui la teoria che il lavoro nel terziario o ad alta qualificazione possa sostituire quello tradizionale è seccamente smentita.

Nessun Acquario e nessuna Ikea hanno consentito la tenuta del tessuto sociale. Turismo e servizi hanno significato meno occupazione, precarietà e bassi salari. L’instabilità ha fagocitato tutto il lavoro. Nessun dipendente a tempo indeterminato si sente ormai garantito. La vecchia divisione tra stabili e precari è divenuta ideologia. La precarizzazione del lavoro è generalizzata, l’unica differenza consiste che in alcuni dei tradizionali bastioni del lavoro esistono ancora forme di sindacalizzazione che consentono di reagire, di provare a difendersi.

Il trasporto pubblico rappresenta uno dei crocevia dell’insofferenza sociale e dell’aspirazione al cambiamento. L’unità della categoria, nonostante non sia organizzata stabilmente, nonostante non abbia neppure una Rsu in azienda, ha in questi giorni svolto un ruolo determinante. I sindacati dovrebbero rappresentare una postazione con ruolo di traino, ma più di sovente sono trainati, magari dai loro stessi delegati. Il ricordo va ai primi scioperi selvaggi del 2003 per il contratto nazionale. D’altronde i protagonisti sono pressoché gli stessi, però oggi la battaglia degli autoferrotranvieri è vissuta dai protagonisti anche come lotta per la città e per il cambiamento e tale è colta da tanta parte di cittadinanza.

Nell’ultima gremitissima assemblea alla Sala Chiamata dei portuali gli autoferro hanno dichiarato che non è in corso uno sciopero, piuttosto una rivolta, se non una rivoluzione. Non è un caso che fin da subito una serie significativa di associazioni, comitati di quartiere e vari no Tav in versione locale (contro il Terzo valico e la Gronda) abbia partecipato alla mobilitazione.

La cifra del cambiamento è data dal fatto che, a differenza del passato, non riecheggiano le accuse di corporativismo. Questa mobilitazione e questi lavoratori non praticano forme di separatezza, o peggio di incomunicabilità. La parzialità che in qualche modo rivendicano, al contempo ha il potere di abbracciare interessi e bisogni collettivi come ambiente, salute, vivibilità, servizio pubblico, comunanza, difesa di diritti e lavoro. Una scintilla su temi di cui c’è più consapevolezza di quanto a volte ci si aspetti.