«Niente sarà più come prima. I giovani hanno sfidato per la prima volta la polizia sul terreno della resistenza attiva e questo non era mai successo», sostiene Alexey, uno degli organizzatori della manifestazione di sabato a Mosca per protestare contro la mancata ammissione di 57 candidati dell’opposizione alle elezioni comunali del prossimo 8 settembre.

E in effetti gli echi di quanto successo stentano a spegnersi. In primo luogo per le dimensioni della repressione: per 150 dei 1373 fermati sono stati disposti o l’arresto amministrativo o pesanti multe. Da parte loro le forze dell’ordine hanno voluto sottolineare che almeno la metà dei fermati non sono residenti a Mosca.

La notizia confermerebbe quanto denunciato dal sindaco della città Sergey Sobyanin, secondo cui nella manifestazione si sarebbero infiltrati o sarebbero stati chiamati a rinforzo attivisti-provocatori venuti «da fuori». Una tesi sostenuta anche dalla tv di Stato: dopo un silenzio di due giorni sugli avvenimenti, un talk-show del mattino del primo canale ha tentato di accreditare la tesi che nella «legittima protesta» si sarebbero «inseriti gruppi di cospiratori».

Un tentativo un po’ goffo di divide et impera forse non del tutto campato in aria. Alla manifestazione avrebbero partecipato individui della provincia con alle spalle le esperienze delle lotte contro gli inceneritori degli ultimi anni. Elemento che implicitamente non fa che confermare il carattere politico delle proteste.

«Da qualche tempo si assiste a un disorientamento del potere nei confronti delle proteste. È iniziato a Ekaterinburg con la protesta contro la cattedrale, è continuato con il caso Golunov e prosegue ancora adesso», afferma Boris Kagarlitsky, sociologo di fama internazionale che parteciperà alle elezioni come candidato indipendente. Non è un caso quindi che la repressione colpisca sempre di più nel mucchio.

Nella manifestazione culminante delle proteste contro i brogli alle presidenziali del 2012 a Mosca i fermi erano stati 400, il 26 marzo 2017 quando emerse la stella di Alexey Navalny furono 900 e sabato le forze dell’ordine hanno abbattuto quel record, più un segno di debolezza che di forza.

Ora Dmitry Gudkov, uno dei candidati non ammessi, annuncia: «Saremo in piazza ancora sabato prossimo». E i tempi risicati per la chiusura delle liste rischiano di lasciare le autorità nel guado: ammettendo alcuni dei candidati esclusi mostrerebbero la propria debolezza, ma irrigidendosi rischiano di far diventare caldissima una campagna elettorale che fino a poche settimane fa si preannunciava, complice il periodo estivo, soporifera.

Sullo sfondo, la crisi sociale del paese che a Mosca è ancora poco evidente grazie ai più alti salari, ma che rischia di farne l’epicentro politico. «Continua la deindustrializzazione, non si vedono processi di innovazione tecnologica e di modernizzazione delle infrastrutture mentre l’economia del paese continua a dipendere dall’estrazione di materie prime.

La differenziazione sociale resta profonda: il numero di poveri è rimasto stabile, il salario medio mensile dei lavoratori oscilla sui 300-400 euro mentre ogni anno cresce nelle classifiche di Forbes il numero di miliardari russi», dichiara il professor Alexander Buzgalin, direttore della rivista di sinistra Alternativy.

Purtroppo però la debola sinistra russa resta divisa sul da farsi. Mentre il Fronte di sinistra di Sergey Udalzov (che presenterà candidati indipendenti nelle liste del partito comunista) informa che pur «solidarizzando con le ragioni della protesta non intende partecipare alle dimostrazioni perché infeudate da forze liberali filo-occidentali», il Movimento socialista democratico «invita alla continua mobilitazione e si pone come primo obiettivo ineludibile la democratizzazione della società russa».