Libri di scienze vecchi di 25 anni, dizionari tenuti insieme con lo scotch, acquerelli derivati da pennarelli buttati via, studenti di sette/otto anni ammucchiati in classi/roulotte che devono uscire all’aperto da soli per andare in bagno, soffitti che perdono, vespe nei muri, banchi e sedie a pezzi, settimane scolastiche ridotte a quattro giorni. Sono alcune delle istantanee – letteralmente parlando- inviate da 4200 insegnanti di scuole pubbliche americane -in Colorado, Oklahoma, Tennessee… al «New York Times».

Un Sos, quello dei maestri, che prima di arrivare sotto forma di testimonianze visive e scritte su sollecitazione del quotidiano newyorkese, aveva raggiunto i Tg e le prima pagine grazie a una serie di scioperi indetti in vari stati – a partire dal West Virginia, e poi continuati in Oklahoma e Kentucky; con l’Arizona che sta decidendo in questi giorni se scioperare o no. Quello che accomuna le proteste degli insegnanti -oltre al fatto che si stanno verificando in «stati rossi», a tradizione repubblicana, che hanno votato per Trump – è l’oggetto della rivendicazione: non solo l’aumento di stipendi stagnanti da anni, ma quello dei fondi statali destinati all’educazione, sfibrati da tagli radicali, specialmente a partire dalla recessione del 2008.

Secondo uno studio del Center on Budget and Policy Priorities, in Oklahoma, (dove la protesta degli insegnanti si è fatta sentire di più) tra il 2008 e oggi il budget per studente è sceso del 28.2%. Texas e Kentucky seguono subito dopo, con 16.2 e 15.8. Sotto pressione, la legislatura dell’Oklahoma il mese scorso ha passato un aumento di 6.000 dollari annui di stipendio per insegnante e 50.000 in fondi per l’educazione. Ma per gli insegnanti non è abbastanza: chiedono, rispettivamente, 10.000 e 200.000, da distribuirsi nel corso dei prossimi anni. La ripresa economica avvenuta durante la presidenza Obama non ha infatti sempre significato che gli investimenti nelle scuole tornassero a indici pre-recessione.

Stati come Arizona, Idaho, Mississippi e Kansas hanno preferito reinvestire i proventi della ripresa in tagli fiscali che a loro volta hanno ulteriormente handicappato la spesa pubblica. Un trend che la riforma fiscale passata quest’anno dal congresso repubblicano e firmata dalla Casa bianca non potrà che accentuare. Perché – mentre l’attenzione del paese e del mondo è rapita da tweet e scandali presidenziali, e mentre la borsa continua a suonare il jingle dell’ottimismo, qua e là in Usa certe situazioni di degrado stanno veramente iniziando a esplodere.

E, se tra i peggio colpiti rimangono le zone rurali di stati poveri e a governo repubblicano, la trascuratezza dell’infrastruttura pubblica si fa sentire anche in luoghi apparentemente insospettabili, come la ricchissima New York, dove il governatore Cuomo ha appena dichiarato l’emergenza per il sistema delle case popolari, e ci è voluto un reportage investigativo dal «New York Times» (quello sì che meritava il Pulitzer) per spiegare come mai la metropolitana di una delle maggiori città del mondo è ridotta in uno stato di fatiscenza e inattendibilità da cui non è ancora chiaro come potrà risollevarsi.

Un altro dato che rende interessante il sollevamento degli insegnanti è la sua natura grass root: nonostante, nel quadro dell’indebolimento generale, sia rimasto uno dei più potenti, il sindacato non è stata la forza determinante dietro agli scioperi, propagatisi, di stato in stato, grazie a un movimento sviluppatosi online. E che sembra un modello plausibile per l’immediato futuro. Sempre dalle scuole, ieri è stato un altro giorno di protesta – con studenti di tutto il paese che abbandonavano le classi per chiedere nuove leggi sul controllo delle armi. Era il diciannovesimo anniversario di Columbine.