Comunque andrà a finire la vertenza Arcelor Mittal, si conosce già il nome della prossima crisi occupazionale con la certezza di migliaia di esuberi. La nuova Alitalia spiccherà il volo lasciando a terra buona parte dei 10.847 addetti ora alle dipendenze dell’ex compagnia di bandiera.
Il dato sui dipendenti è stato ufficializzato ieri dai tre commissari durante l’audizione sul decreto Fiscale che dà loro in dote altri 400 milioni. Una cifre spropositata rispetto anche ai prestiti precedenti che viene motivata «per consentire l’ordinata gestione nonché per mettere in condizione il soggetto subentrante di avere un capitale circolante netto che sia equilibrato e non lo ponga in condizione di fabbisogno finanziario».
I 400 milioni di prestito corrisponderanno però all’incirca alla metà del capitale della nuova società: se già la cifra di un miliardo era imbarazzante per qualsiasi compagnia aerea degna di questo nome, ieri è arrivata la certezza che il budget si è già ridotto a 800-900 milioni.
Chiaro che con queste premesse parlare di «rilancio» come insistono a fare dal M5s è ridicolo. E che il corollario è un numero di esuberi superiore ad un terzo del totale. Sarebbero 2.700 nel piano industriale già abbozzato da Fs con Delta, un numero destinato a salire se invece entrerà Lufthansa che un anno fa ne stimò almeno 4mila.
I sindacati di questi numeri hanno letto solo sui giornali perché dal Mise prima con Di Maio e poi con Patuanelli è sempre arrivata la rassicurazione su «zero esuberi». Come insegna il caso Ilva, vatti a fidare dei ministri del M5s e delle loro previsioni sui livelli occupazionali nelle crisi aziendali.
Oggi su questo fronte sarà un giorno decisivo. A Colonia il board di Lufthansa diffonderà i risultati trimestrali e dovrà fatalmente scoprire le carte sull’offerta per entrare nel capitale della nuova Alitalia e non solo come partner commerciale. Convinti dalle pressioni di Atlantia – che pensa che Delta cerchi solamente una compagnia «riempi voli transcontinentali» – i tedeschi dovrebbero offrire più dei miseri 100 milioni degli americani, ma le loro condizioni sono talmente stringenti – accordo sugli esuberi coi sindacati – da lasciare molte incognite.
A decidere sarà principalmente la capocordata Fs guidata da un Gianfranco Battisti sempre più traballante perché inviso a buona parte dello stesso M5s e di certo non amato dal Pd che voleva la fusione con Anas, non la prima alleanza al mondo ferro-cielo.
Nel frattempo anche i conti illustrati dai commissari non sono molto positivi. Alitalia ha sì risultati in crescita, con ricavi in aumento e un fatturato che anche quest’anno supererà i 3 miliardi e nel primo semestre i ricavi sono pari 1,443 miliardi, con un +3% rispetto al 2018 e +7,7% dal 2017 (che sale al +14,2% in due anni se si guarda al lungo raggio); ma l’Ebitda è negativo per 164 milioni, in peggioramento da -124 del primo semestre 2018, sebbene il dato venga spiegato dai commissari con l’aumento del costo del petrolio (52 milioni in più per il carburante).
Crescono gli investimenti (201 milioni nel 2019 dai 183 del 2018); cala il costo dei contratti di leasing che sono stati “capestro” negli anni della gestione Etjhad.
Intanto sul fronte della trattativa, che va avanti da «tanto tempo» e ha portato l’amministrazione straordinaria «molto oltre i limiti consentiti», osserva il commissario ultimo arrivato Discepolo, a questo punto il termine del 21 novembre per l’offerta vincolante diventa «essenziale». Ma nell’agenda i commissari hanno un’altra deadline: il primo trimestre 2020 per concludere tutti i passaggi – autorizzazione antitrust, trattativa sindacale e autorizzazione sugli aiuti di Stato – per il trasferimento degli asset. Uno «spostamento minimo» della scadenza non sarebbe un dramma, osserva il commissario più esperto Laghi, purché resti fermo il termine del primo trimestre 2020 per il closing. Ma la chiusura sarebbe la parola giusta per un terzo dei lavoratori.