Aleksandr Rodchenko era un bricoleur a tutti gli effetti, un campione umano da prendere ad esempio per un antropologo come Lévi-Strauss. Sua figlia Varvara (ancora oggi vivente) lo ricorda chino, seduto nella penombra del suo studio, concentratissimo ad aggiustare qualsiasi cosa gli capitasse a tiro, dalle scarpe alle prese elettriche. E poi si divertiva a assemblare scaffali e radio, a costruire la camera oscura dove compiere la magia finale della stampa. Ma il principale bricolage di Rodchenko era rappresentato da quel suo prendere in prestito frammenti di linguaggi diversi per ricomporli in un universo unico dove linee, immagini e parole venivano calamitate per ordinarsi secondo parametri creativi inediti: erano questi a erodere dall’interno caratteri tipografici e inquadrature. L’artista totale, grafico e fotografo russo giocava con le eredità culturali del passato, mescolando segni di appartenenze lontane, fondando per loro un nuovo dna.

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Le strutture spaziali costruttiviste di rodchenko al Lac

Tra pionieri e burattini
In questo suo lavoro di recupero, archivio e reinvenzione, non era mai solo: accanto a lui, con la stessa meticolosità, si applicava alla rivoluzione iconografica (e sociale) anche la sua compagna, prima di studi e poi di vita, Varvara Fedorovna Stepanova, conosciuta alla Scuola di belle arti di Kazan. Specializzata nel design tessile – indimenticabili i suoi vestiti costruttivisti – Stepanova condivideva con Rodchenko l’idea che l’arte non potesse essere rinchiusa in un museo ma dovesse circolare nella vita, essere in grado di riprodurla e migliorarla. E quando negli anni Trenta suo marito fu messo all’indice come artista (venne accusato di eccessivo formalismo e di guardare troppo ai linguaggi occidentali), obbligato a occuparsi esclusivamente del «progresso» e le grandi opere dell’Unione sovietica, sarà lei ad aiutarlo nella composizione grafica delle immagini per la rivista Urss in costruzione e, in seguito, nella composizione di album che immortalassero la Storia dei lavoratori e dei mutamenti delle città in rapida industrializzazione.

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Rodchenko e Stepanova

La serie delle fotografie scattate da Rodchenko nel corso del suo difficile reportage intorno al canale sul Mar Bianco sul Baltico la troviamo interamente proposta nella mostra al Lac di Lugano (visitabile fino all’8 maggio, catalogo Skira), il centro culturale di arti visive, musica e teatro inaugurato nel settembre scorso e diretto da Marco Franciolli. A cura di Ol’ga Sviblova, che è al timone della Casa della Fotografia di Mosca, la rassegna presenta oltre trecento opere e chiude il percorso con alcune sculture aeree ideate nel 1920-21 in omaggio all’estetica costruttivista.
Solo nel 1924 scoppierà, infatti, l’amour fou per la fotografia. E Rodchenko con una lochim 9×12 e una 13×18 (la Leica arriverà dopo, acquistata a Parigi durante l’Expo universale) scatterà quell’icona di un’epoca che è il ritratto di sua madre: un primo piano stretto, alla Ejzenstejn, dove una signora anziana, che ha imparato a leggere non da molto, inforca gli occhiali per vedere meglio fra le righe. Il libro è fuori cornice, ma ha una presenza ugualmente potente. L’inquadratura è simile a quelle che dedicherà ai «pionieri»: il passo successivo sarà la ripresa dal basso verso l’alto, punto di vista contestatissimo dai suoi contemporanei. Nelle sequenze dell’«epica sovietica» spesso l’approccio verrà ribaltato. Dall’alto verso il basso, a schiacciare l’umanità in cammino verso il futuro.

Fra le foto più belle esposte in mostra, figura la serie di pupazzi che dovevano servire per illustrare un libro per bambini di Sergej Tret’jakov, Samozveri, che però non vide la luce. Rodchenko vi aveva lavorato insieme a Varvara Stepanova e quei piccoli burattini presero vita attraverso un’accorta drammaturgia delle luci.
In una metà di marzo piovosa e fredda, con cumuli di neve abbandonati ai lati delle strade e sulle sponde del lago, nella placida Lugano finiscono per intrecciarsi le sorti di due rivoluzioni: da una parte l’avanguardia sovietica, sperimentata con passione da Rodchenko, Stepanova, Majakovskij, Osip e Lilja Brik, i registi Vertov e Ejzenstejn (con i quali il fotografo collaborò assiduamente, per disporre graficamente i titoli della kinopravda girata da Vertov o per disegnare le locandine di film), e dall’altra si materializza il set dei tumulti francesi, in uno dei suoi momenti più bui, durante gli anni del Terrore. È Mario Martone con la sua compagnia a portarla in scena al Lac: quel kolossal che è la Morte di Danton ha come controcanto la carrellata di speranze e utopie artistico-sociali espresse dalle immagini di Rodchenko. In entrambi i casi, si assiste alla rottura violenta di un sogno, al deragliamento del «fine» verso il suo soffocamento.

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In casa con Majakovskij, i Brik e Varvara Stepanova

In fondo, Aleksander Rodchenko aveva passato la sua infanzia tra le tavole polverose di un palcoscenico, quando suo padre faceva il trovarobe per il teatro Club russo e lui viveva nell’appartamento sopra lo spazio scenico. Bambino, scendeva a cercare gli oggetti perduti tra le sedie dagli spettatori o a inventarsi racconti fantastici, in solitudine. In seguito, abbandonata la professione di dentista, aveva trovato una strada propria: «Non sono approdato alla fotografia dal nulla; ci sono arrivato quando ero già pittore, grafico e designer». Fra le nuove possibilità che si profilavano all’orizzonte per chi volesse raccontare il mondo moderno, c’erano innanzitutto i contrasti: prospettici, di luci e forme, «angolazioni impensabili, scorci esagerati e trame materiche impietose», come scrisse lo stesso Rodchenko sulla rivista Sovetkoje foto (Fotografia sovietica) nel 1934, anche se il testo verrà pubblicato solo nel 1971.

Ma quella originalità di linguaggio la pagò con espulsioni (l’ultima dal Sindacato degli artisti), critiche feroci e derisioni. Gli ultimi anni della sua vita furono precari e amareggiati («il popolo è stato condotto Dio sa dove», scriverà nel 1943). Ne risentì anche la sua salute e sebbene Stepanova avesse intrapreso negli anni Cinquanta una campagna per la sua riabilitazione creativa, Rodchenko morirà nel 1956. L’anno prima, era stato riammesso tra i membri del Mosskh, la sezione moscovita del sindacato.

Legami poetici
Eppure c’erano stati anni fulgidi nella sua esistenza. Le sue «architetture visive» avevano dato corpo alle copertine della rivista Lef (Fronte di sinistra delle arti), erano state impaginate nei giornali. E, soparttutto, erano state molto amate dal poeta e scrittore Vladímir Majakovskij. Divenuto suo amico fraterno, gli commissionò le illustrazioni del libro Pro Eto (Di questo) che Rodchenko interpretò attraverso una serie di fotomontaggi ironici e rigogliosi, dove la diagonale costruttivista, simbolo di un movimento libero, sarà un elemento fondante. Fu sempre Majakovskij a prestargli i rubli mancanti (trenta) per comprare un ingranditore: solo che poi Aleksandr se lo dovette trascinare fino a casa a piedi perché aveva dimenticato di chiedere qualche soldo in più per il trasporto con una  vettura. E il 14 aprile del 1930 toccò proprio a Rodchenko il lavoro più doloroso: fotografare il cadavere del poeta suicida nel suo appartamento.

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