Noi italiani siamo davvero così patetici come ci raffigurano le pubblicità del cibo? Ci basta avere di fronte un piatto di pasta scongelato, un sugo pronto o un gelato stampato nel gesso perché le nostre case, solitamente umane e contemporanee, si riallineino al modello patriarcale-arcaico, i padri smettano di cucinare, i figli di collaborare, e, più in generale, il cibo di proporsi nel modo imprevedibile, vario, non standardizzato che fa grande il blasonatissimo Made in Italy? È la ricerca, rigorosa ma che si legge a bocconi voraci, che Cinzia Scaffidi, vicepresidente di Slow Food, ci propone nel volume Che mondo sarebbe: pubblicità del cibo e modelli sociali, appena pubblicato da Slow Food editore con la prefazione di Patrizio Roversi. «La pubblicità relativa al cibo ci vuole trasmettere modelli di vita, ci racconta come dobbiamo essere, come devono svilupparsi i nostri rapporti in famiglia», denuncia Patrizio Roversi. E dopo essersi esposta alla visione di ore e ore degli ultimi dieci anni almeno di pubblicità di settore, la conclusione di Scaffidi è che «i modelli che la società e pubblicità si rimpallano sono troppo spesso vecchi, stanchi, triti fino a essere irritanti. Eppure ci vengono proposti come desiderabili». È desiderabile «che le mogli facciano regolarmente la parte delle infermiere-fattorine per qualunque raffreddore, gengivite, intolleranza al lattosio o prostatite?», si chiede Scaffidi. No ma è comodo. Comodo per chi, come i produttori di cibo industriale, voglia far passare l’idea che il cibo migliore, quello più adatto alla nostra vita quotidiana, è quello standard e sempre uguale a se stesso progettato e realizzato da loro. E tutto il resto del cibo – gustoso, vario, imprevedibile – sia invece pericoloso e non desiderabile.
La galleria pubblicitaria – dove Scaffidi fa nomi e cognomi – ospita dalla zuppa congelata che pretende di contenere pesce «del mercato», alla sua parente fatta tutta «di verdure dell’orto». Fino al fidanzatino che offre in pegno d’amore la merendina impacchettata invece del gioiello di pasticceria, perché l’amata non diventi «tutta ciccia e brufoli», alla mamma tutta sorrisi e bastoncini per il bene della sua prole.

Merito di questo volume è dimostrare chiaramente come il cibo, anche se potrebbe sembrare enorme, sia uno dei campi – fisici e semantici – dove ci giochiamo la nostra libertà. E altri valori importanti come l’uguaglianza, la fraternità, la fiducia e la qualità. Nella narrazione imposta dai padroni del cibo, infatti, non siamo liberi di scegliere che cosa coltivare o mangiare. Ci fanno credere di poter comperare tutto ciò che vogliamo, ma se scegliessimo di abitare la stretta cornice di consumi che ci propongono, ampia quanto gli scaffali di un supermercato, la maggior parte di chi produce cibo in Italia non saprebbe più a chi venderlo, e chi è povero non partecipa facilmente alla vita democratica del Paese.

La pubblicità non ci considera cittadini, ma ci prende in considerazione solo se siamo consumatori. Il mercato si preoccupa solo di chi può acquistare. Come se non ci fossero limiti oggettivi a quello che la natura produce, ma anche a quello che ciascuno di noi può mangiare. La proposta di Scaffidi è semplice e risolutiva: usciamo dallo spot, proviamo a cercare e scegliere il cibo che più ci somiglia. Quello vero, da preparare in casa o da comprare da artigiani e contadini. Eviteremo, così, il rischio di «assomigliare a quelle mogli-cuoche-cameriere con una paresi facciale che le blocca su un sorriso immotivato, o a quei mariti svagati che non troverebbero lo sportello del forno nemmeno con Waze».