Quando non si vuole vedere la realtà, e quindi anche la verità, non ci si arrende neppure di fronte all’evidenza. La verità, scrive Giuliana Sgrena, muore quando di una donna stuprata si afferma: se l’è andata a cercare, muore quando un ministro dice che i migranti sono delinquenti, muore quando ti raccontano che i fatti non esistono ma solo le opinioni. Manifesto per la verità (Il Saggiatore, pp. 259, euro 15), l’ultimo volume di Giuliana Sgrena, è un’ampia riflessione sulla manipolazione delle notizie: giornalisti (e lettori) rileggendo i fatti si accorgeranno delle stupidaggini scritte e dette, più o meno consapevolmente. Qui però non si racconta la solita favoletta assolutoria sul mestiere: Giuliana rompe il salvadanaio di decenni di viaggi, letture, reportage, avventure e di personali sofferenze per buttarci in faccia un tesoro prezioso: la verità, un percorso minato e con pochi compagni di viaggio.

COMINCIAMO da un classico, sempre di bruciante attualità, la madre di tutte le bufale o fake news: le armi di distruzione di massa in Iraq. Per anni Giuliana se ne era occupata al Manifesto con l’indimenticabile Steve Shrimps, compagno di scorribande mediorientali che, se fosse ancora qui con noi, leggerebbe queste note con ironia dicendo che in fondo il nostro mestiere ormai è quello dell’arte della fuga dalla «notizia».
Eravamo tutti lì quel 9 aprile quando a Piazza Firdus, tra l’Hotel Palestine e lo Sheraton, gli americani abbatterono la statua di Saddam Hussein. Ecco come descrive la scena Giuliana Sgrena: «scesi in piazza … tutti i giornalisti erano radunati lì … La popolazione locale se ne stava chiusa in casa e non uscì nemmeno quando iniziò l’abbattimento della statua». Dal tetto del Palestine potevamo vedere una città di milioni di abitanti completamente svuotata, silenziosa, immobile. Ma, come prosegue, «basta cambiare un’inquadratura per diffondere al mondo la notizia che una folla inneggiava alla liberazione dal dittatore». I media accostarono l’evento alla caduta del Muro di Berlino nel 1989: questo era l’effetto propagandistico che si voleva. E chi, come lei, scrisse che non c’era nessuna folla osannate non veniva minimamente creduto. È così che si uccidono gli inviati, manipolando la verità e annegando gli autentici reportage in una marea di commenti di cosiddetti «esperti» che di solito non hanno mai messo piede in questi luoghi. Il vero nemico dell’inviato non è al fronte ma in redazione, che lo incalza non per descrivere al meglio la storia ma per dare una «certa» versione della storia. Funziona ancora così: qui non ci sono più fatti ma solo interpretazioni. È l’era della post-verità di cui Giuliana si occupa nel finale del libro dove risuona la campana a morto per il giornalismo.

EPPURE QUESTO LIBRO va più in profondità delle miserie di una parte del mestiere colluso con la propaganda. Viene descritto come la colossale bufala irachena, costata centinaia di migliaia di morti, sia stata costruita nel tempo con un accumulo di menzogne. È cominciata con l’operazione Desert Fox del dicembre 1998 quando il presidente statunitense Bill Clinton insieme al premier inglese Tony Blair colpirono le istallazioni militari irachene con l’obiettivo ufficiale di «ridurre la capacità di Baghdad di fabbricare armi di distruzione di massa». Ma come testimoniato da Scott Ritter, un ex marine e ispettore Unoscom (la commissione Onu), nel 1998 le Nazioni Unite avevano già accertato che tutte le armi di distruzione di massa erano state eliminate.

IN REALTÀ, sottolinea Giuliana, il capo dell’Unoscom Richard Butler lavorava per la Cia: aveva ritirato lui gli ispettori, non era stato Saddam a cacciarli. Qualche tempo dopo il vice di Saddam, Tareq Aziz, mi disse: «Ci faranno la guerra anche se gli consegnassimo pure l’ultimo dei nostri Kalashnikov». Allora non si parlava ancora di fake news: le bufale non arrivavano dai social network ma direttamente dai governi.
E sono continuate ad arrivare dai governi, grazie anche ai giornalisti «embedded» con le truppe Usa, che a Falluja non videro i bombardamenti al fosforo degli americani. Chi documentò i fatti furono Rainews24 e Giuliana Sgrena. Ma nessuno se ne accorse. Anzi. Quando nel 2005 tornò dal rapimento sopravvivendo al «fuoco amico» americano che uccise Calipari venne trattata con ostilità: forse davanti alla sua bara avrebbero detto che era morta facendo uno scoop.
La madre di tutte le bufale è nata dentro al sistema politico e di propaganda anglo-americano che non ha mai smesso di produrre la «verità del momento». E gli altri, come i russi o cinesi, hanno cominciato a imitarlo. Non solo, oggi il sistema che produce bufale può godere dell’aiuto dei social network, di facebook, di twitter, di centinaia di siti e blog le cui notizie sono spesso false o inverificabili.
Non c’è più bisogno di inviare ai giornalisti voluminosi faldoni con una parvenza di futile serietà: basta andare sul web e la verità del momento si diffonde come un virus. La vittime di questi abusi dell’informazione sono le donne, i migranti, argomenti che Giuliana Sgrena descrive in maniera assai puntuale e poi, ovviamente, i fronti di guerra.

È INTERESSANTE NOTARE che la madre di tutte le bufale continua a fare vittime. Siamo nel novembre 2015, quando France 5 invia una troupe a intervistare Ahmad Chalabi – che nel 2003 una copertina di Time descriveva come «il George Washington iracheno»; Chalabi fu selezionato per diffondere le false informazioni sulla famosa «pistola fumante» costruite dal capo della National Geospatial Intelligence Agency, James Clapper.
«Gli americani – dichiarò Chalabi nell’intervista – nel 2001 mi chiesero riferimenti e nomi che avrebbero potuto essere utili a costruire un’accusa sulle armi di Saddam e io ho fornito questi elementi». Dichiarazioni con un finale sconcertante. Il giorno seguente all’incontro, il 3 novembre 2015, la troupe di France 5 è ancora a Baghdad quando arriva la notizia: Chalabi era stato appena trovato morto, apparentemente per un attacco di cuore. Ai colleghi francesi non restò che dileguarsi con il primo volo per Beirut. Di solito questi non sono buoni segnali.

MA NON OCCORRE andare in guerra per rischiare la pelle. Basta occuparsi di temi scottanti, come Daphne Caruana Galizia a Malta e Jàn Kuciok in Slovacchia mentre una ventina di giornalisti in Italia vivono sotto scorta che l’ex ministro Salvini avrebbe voluto togliere. Giuliana Sgrena ricorda che davanti all’assassinio di Jamal Khashoggi, fatto a pezzi nel consolato di Riad a Istanbul, Trump ha ostentato un’alzata di spalle. Il mandante, secondo gli stessi servizi americani, è il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman: il prossimo anno sarà lui il presidente del G-20. Oltre che senza verità siamo senza vergogna.
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[Mercoledì 25 settembre (ore 18.30) a Roma presso la Casa Internazionale delle donne di via della Lungara 19, la presentazione del volume. Con l’autrice dialogano: Norma Rangeri, Silvia Garambois e Alberto Negri]