Prigionieri in vendita: l’ultima frontiera dell’oliata macchina della propaganda dello Stato Islamico. L’annuncio – come si trattasse della più normale delle offerte – è apparso nei giorni scorsi nel magazine online dell’Isis, Dabiq, giunto ormai alla sua undicesima edizione. I due uomini, trasformati in pura merce, sono due ostaggi, il norvegese Ole Johan Grimsgaard-Ofstad e il cinese Fan Jinghui.

Nella rivista sono pubblicate le loro foto, vestiti con uniformi gialle, in mano dei cartelli: «Prigioniero in vendita». A seguire, un numero di telefono per gli interessati e dettagli sugli ostaggi. Il “prezzo” non viene indicato, rimandando al contatto diretto con i sequestratori. Si specifica solo che l’offerta è valida per un periodo limitato.

Media e analisti si chiedono negli svariati articoli apparsi sull’argomento se il destinatario del messaggio siano i governi di Oslo e Pechino e quindi l’offerta sia una mera richiesta di riscatto. O se l’Isis punta invece ad altri gruppi armati, interessati all’acquisto a fini di autofinanziamento. Il premier norvegese Erna Solberg ha già rinviato al mittente l’eventuale offerta: «La Norvegia non paga riscatti». Stessa reazione a Pechino.

Al di là della questione del riscatto, però, quello che una notizia simile racconta è il carattere estremamente moderno e tipicamente occidentale della propaganda islamista. Una macchina tecnologica che utilizza gli strumenti di informazione e comunicazione dell’Occidente per fini solo apparantemente diversi: magazine come Dabiq (dal nome di una città siriana, secondo un hadith luogo dell’Armageddon), case cinematografiche e emittenti come Al Hayat Media Center (produttore di video e film), agenzie stampa come al Furqan svolgono lo stesso ruolo che da noi svolge la pubblicità. Vendere un prodotto, un brand. Chi è il consumatore? Il nuovo adepto, il potenziale jihadista che si unirà alla causa del califfato da terre lontane. Perché tutti i media in questione parlano la lingua delle prede: articoli e film sono in inglese, francese, russo, spagnolo.

Ricalca perfettamente gli standard nostrani anche la pubblicazione nell’ultima edizione della rivista Dabiq della foto del piccolo Aylan Kurdi, il rifugiato di Kobane trovato senza vita lungo la costa turca. Se in Europa quella foto è stata mostrata per fare pressione sui governi nell’ambito dell’emergenza rifugiati, per lo Stato Islamico l’obiettivo è altro: accusare quei rifugiati di essere peccatori, perché diretti verso un mondo dove saranno esposti a droghe, alcol, sesso. Di fuggire dal luogo in cui il califfato sta risorgendo: nell’articolo a commento della foto si spiegano le ragioni per cui il rifugiato sta commettendo un grave peccato, nella particolare interpretazione dell’Islam dettata da al-Baghdadi.

Il balzo in avanti compiuto dall’Isis nel campo della propaganda spiega parte del suo successo. Ma anche delle sue contraddizioni: per un movimento che si dichiara nemico dell’Occidente, non è facile giustificare l’uso di mezzi tipicamente occidentali. Dai social network ai colossal stile Hollywood, dalle vendite di riviste e film su Amazon ai videogame sul modello di “Call of Duty” fino allo stesso magazine Dabiq, la cui struttura in articoli e analisi, la distribuzione e la qualità delle foto, la grafica, richiamano alla mente le più note riviste nostrane. Ma per l’Isis contraddizione non c’è: ha bisogno di parlare la lingua più comprensibile ai futuri adepti, a musulmani nel mondo pronti a unirsi alle file del califfo. Dopotutto la metà dei suoi attuali miliziani arrivano dall’estero, da 74 paesi del mondo.