Era il 1989 quando Hou Hsiao-hsien sorprendendo gli occhi internazionali vinse il Leone d’oro con Città dolente alla Mostra del cinema di Venezia (diretta da Guglielmo Biraghi), la storia di Taiwan tra il 1945 e il 1949, dalla sconfitta giapponese all’arrivo sull’isola dalla Cina dei nazionalisti di Chiang Khai-shek, e gli scontri con gli abitanti locali che subirono una vera e propria colonizzazione. Argomento tabù, naturalmente.

Allora in Europa erano forse in pochi a conoscere quel regista taiwanese quarantenne – tra questi vi era Marco Müller, sensibile esploratore degli immaginari asiatici, infatti in una foto del tempo gli è accanto nel momento della consegna del Leone – che poi racconterà parlando di sé e della sua adolescenza e giovinezza a Taiwan di come il cinema gli avesse salvato la vita, mentre molti dei suoi amici e compagni di strada finirono in gang uccisi o in prigione.

Figlio di emigrati cinesi rimasti sull’isola con l’arrivo dell’esercito nazionalista, HHH quando conquista il Leone ha già diversi film alle spalle nei quali ha preso forma una ricerca che guarda alle storie personali e a quella del suo Paese, ai conflitti sociali taciuti, ai rimossi della «memoria» e delle identità. E che lavora sul tempo della narrazione, sulla forma visuale – lunghi piani, ellissi, dettagli – sul sentimento della giovinezza.

È PROPRIO questo periodo del regista – di cui almeno in Italia il film più noto rimane Millennium Mambo(2001) che è anche il solo uscito in sala pure se tagliato per esigenze commerciali, o come disse la distribuzione, su indicazione del regista, ma altrove uscì nella forma più lunga – che Fuori orario (Raitre) ci fa scoprire proponendo l’opera prima dell’autore, Cute Girl (1980) e Green Green Grass of Home (1982), entrambi in prima visione tv, venerdì 16 aprile all’interno del ciclo Polvere nel vento – Cinque maestri d’oriente che si è inaugurato con Still Life (2006) di Jia Zhangke e Stray Dog di Tsai Ming Liang, e continuerà tra aprile e maggio con un film di Hou Hsiao-hsien, I ragazzi di Feng Kwei (1989), e con Taipei Story (1985) di Edward Yang, l’altro protagonista insieme a HHH di quello che viene definito il Nuovo cinema di Taiwan. Poi sempre di Jia Zhangke Al di là delle montagne (2015) e I figli del fiume giallo (2018) – anche questi in prima visione.

Cute Girl è una commedia romantica (il riferimento secondo alcuni critici è Accadde una notte di Frank Capra (1934) – il cui enorme successo permetterà al regista di girare il successivo Green, Green Grass of Home – nel mezzo c’è Cheerful Wind (1981), tutti e tre sono interpretati dalla star di Hong Kong Kenny Bee.

Anche Green, Green Grass of Home (titolo da una canzone di Tom Jones) è una storia d’amore con al centro un giovane maestro «cittadino» che va a vivere in un villaggio e rimane conquistato dai luoghi della campagna e dalle persone. Dice Hou Hsiao-hsien: «I miei primi tre film parlavano dei sentimenti in una maniera nuova. Avevamo deciso di filmare gli attori secondo un metodo vicino al teatro e alla vita. Il cinema si è trovato all’improvviso modernizzato».

Nella programmazione di Fuori orario c’è ancora un altro film imperdibile, che dall’esordio al Forum della Berlinale nel 2018 ha lasciato una traccia profonda nell’immaginario mondiale – il mercato italiano ha come quasi sempre ignorato. Lo ha realizzato un giovane regista del quale rimane l’unica opera, visto che si è suicidato poco dopo, a ventinove anni, la causa, si dice, furono le violente liti coi produttori sul film al montaggio riguardanti la durata – quattro ore che scorrono senza alcuna fatica.

O forse altro, chissà, sembra che Hu Bo, questo il suo nome, anche scrittore, dell’esistenza dicesse da qualche parte: «Non si tratta che di scegliere con quali rimpianti vogliamo vivere».

 

IL FILM in questione è An Elephant Sitting Still (2018) (venerdì 9 aprile, Raitre dalle 01.10), ed è appunto un evento poterlo vedere su una televisione pubblica che conferma Fuori orario il solo spazio di cinema se si pensa non solo alla programmazione Rai ma alle logiche ormai da supermercato delle piattaforme che lanciano decine di film, producendo anche autori «scomodi» o poco commerciabili dal loro punto di vista ai quali però offrono pochissima visibilità e promozione.

Ma cosa racconta An Elephant Sitting Still, ambientato in una qualsiasi città industriale della Cina dove si intrecciano le vite di quattro personaggi nel corso di una lunga giornata? L’adolescente Wei Bu è costretto a nascondersi, ha ferito gravemente il bullo della scuola, Yu Shuai, spingendolo giù dalle scale. La sua amica e compagna di classe Huang Ling ha litigato con la madre e si è fatta ingannare dal suo insegnante. Il fratello di Shuai si sente responsabile del suicidio dell’amico, che è saltato nel vuoto quando lo ha trovato a letto con la moglie. Un pensionato, il signor Wang, non vuole andare nella casa per anziani dove cerca di mandarlo il figlio per prendere il suo appartamento.

L’elefante del titolo è quello di una leggenda che sussurra all’inizio uno dei protagonisti: schernito, picchiato l’animale nel circo di cui fa parte, a Manzhouli, non si muove: rimane seduto, indifferente al mondo. Vorrebbero anche loro la stessa forza contro le ingiurie, la violenza, le menzogne, l’indifferenza che accompagna il loro essere al mondo? Non ci sono risposte in questa epica esistenziale che parla di vite e nei loro movimenti compone una immagine della società e del mondo contemporaneo.

TRA I PAESAGGI grigi, avvolti dalla polvere, nei corridoi stretti del condominio di cemento dove gli esseri umani diventano «immondizia» – come grida il padre al figlio al mattino dicendo che fa schifo e puzza – e si avverte una miseria, forse la fine di una economia, Hu Bo – il film è tratto da un suo romanzo – modula il suo corpo a corpo – che è poi quello delle sue storie – col mondo attraverso il cinema: nelle immagini di primi piani e nella luce livida di un inverno infinito che riflette l’interiorità.

Nell’impossibile fuga verso un altrove quasi mitizzato, ai confini con la Siberia e la Mongolia, cercando una promessa che non è mai stata fatta, dal mattino al tramonto tra quelle relazioni non restano che il conflitto, le urla, l’ indifferenza, l’umiliazione quotidiana. E dopo?

ALLIEVO di Bela Tarr, che lo aveva seguito nella realizzazione di un cortometraggio – «Era un uomo costantemente circondato da una tempesta, sempre di corsa, forse sapeva di non avere molto tempo. Voleva avere tutto ora» dice di lui il regista ungherese – Hu Bo della realtà coglie – e rende narrazione – il senso più sfuggente, quanto è universalmente umano, ciò che è senza sociologie o assecondando un «soggetto» importante.

Questo suo magnifico film, che spiazza chi guarda molto spesso, trova la sua potenza nelle parole, nei dialoghi talvolta atroci, nei gesti che compiono i suoi personaggi, nella loro fragilità. E in quell’indifferenza sublimata che per loro è impossibile.