È la fine dei paradisi fiscali? Le grandi multinazionali del digitale, Amazon, Google, Facebook, pagheranno le tasse? È quello che hanno promesso ieri i ministri della Finanze del G7 – i sette paesi più industrializzati – riuniti a Lancaster House a Londra, dopo una discussione durata 48 ore, che apre la porta a un progetto di riforma della fiscalità mondiale.

Usa, Canada, Giappone, Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia si sono detti a favore di una tassa di «almeno del 15%» sugli utili delle multinazionali, applicata nei paesi dove questi benefici vengono realizzati, di modo che le grandi società non possano più sfuggirvi spostando i guadagni nei paesi a bassa fiscalità.

Il G7 non ha però poteri di imporre decisioni agli stati, la prossima tappa per definire un accordo più concreto sarà a Venezia, il 9 e 10 luglio, al G20, che rappresenta l’80% del pil mondiale. «Non penso che il G7 sia comunista – ha ironizzato Jan Brossat, portavoce del Pcf e assessore a Parigi – ma il buon senso è comunista».

LA CRISI DEL COVID, i deficit spettacolari degli stati per far fronte alle conseguenze della pandemia, hanno dato lo scossone finale in favore di una decisione in discussione da anni in sede Ocse, il forum con sede a Parigi che riunisce i trenta principali paesi a economia di mercato (75% del Prodotto interno lordo mondiale).

L’obiettivo è mettere fine allo scandalo che permette a società multinazionali di fare milioni di utili e di non pagare quasi nulla in tasse.

LA CHIAVE DELLA SVOLTA sta negli Usa e nella presidenza Biden, dal momento che il principale beneficiario della tassazione delle multinazionali statunitensi sarà Washington: finora, le discussioni all’Ocse su una tassa mondiale sulle società erano state bloccate da Trump contro le richieste dei grandi paesi europei (ma il vecchio continente ospita vari paradisi fiscali sul suo territorio). Janet Yellen, segretaria al Tesoro Usa, parla di «impegno senza precedenti».

Per Yellen, «questa tassa minima mondiale metterà fine alla corsa verso il basso della tassazione delle imprese e porterà giustizia per la classe media e i lavoratori negli Usa e nel mondo».
Il cancelliere dello Scacchiere, Rishi Sunak, ha definito «storico» l’accordo: «sono fiero che il G7 abbia dato prova di una direzione collettiva in questo periodo cruciale per la ripresa economica mondiale».

PER IL MINISTRO DELLE FINANZE tedesco, Olaf Scholz, è «una buonissima notizia per la giustizia e la solidarietà fiscale e una cattiva notizia per i paradisi fiscali del mondo intero. Le imprese non potranno più sottrarsi agli obblighi fiscali trasferendo con astuzia gli utili verso i paesi a bassa fiscalità». Bruno Le Maire, ministro francese delle Finanze, giudica che il G7 ha segnato «una tappa storica nella lotta contro l’evasione e l’ottimizzazione fiscale».

E aggiunge: è «un punto di partenza e nei prossimi mesi ci batteremo perché questo tasso di imposizione minimo sia il più alto possibile. La lotta continua al G20, all’Ocse, ma la tappa superata qui a Londra è storica».

Esponente di un governo che ha abbassato la tassa sulle società con lo scopo di attirare capitali, Le Maire difende ora tassi più alti del 15%, come del resto tutti gli europei, che hanno aliquote più alte rispetto agli Usa. In un primo tempo, il livello della tassa era evocato era stato il 21%.

Per Oxfam, «il 15% è troppo basso, farà poco per mettere fine a una pericolosa corsa verso il basso delle imposte sulle società e al vasto ricorso ai paradisi fiscali».

La discussione a Lancaster House è durata lunghe ore, perché gli Usa avrebbero voluto come primo passo l’abolizione delle tasse sul digitale, che alcuni paesi (Francia, Gran Bretagna ecc.) hanno imposto alle grandi multinazionali Usa, in attesa della conclusione delle discussioni all’Ocse.

In cambio, è stata adottata una strategia basata su due pilastri: oltre alla tassa di «almeno il 15%» sugli utili, le grandi multinazionali, che hanno margini superiori al 10%, pagheranno una tassa del 20% sui profitti (al di là di una soglia del 10%), nei paesi dove li hanno realizzati.

Nick Clegg di Facebook ha riconosciuto che la riforma «potrebbe significare che Facebook paghi più tasse e in vari luoghi», e con fair play ha auspicato che «la riforma fiscale internazionale riesca».