Giorgio Agamben ha affermato sul manifesto che, sull’onda della paura del Coronavirus, e in nome della sicurezza, si impongono gravi limitazioni della libertà, «lo stato d’eccezione come paradigma normale di governo». L’intervento di Agamben è stato criticato per un aspetto secondario – l’assimilazione della malattia causata dal virus a una normale influenza – e la sua importanza minimizzata. Nello stato d’eccezione, in cui oggi stiamo vivendo, apparentemente decidono gli «scienziati». In realtà essi non decidono granché sia perché non dispongono ancora di prodotti interferenti con lo sviluppo del virus o di vaccini, sia perché i dati a loro disposizione non sono sufficientemente accurati per calcolare il vero grado di contagiosità e di pericolosità dell’infezione (manca uno screening per campioni statisticamente validi di popolazione).

L’Istituto Superiore di Sanità afferma che il vero problema sarebbe non tanto la mortalità quanto la difficoltà di accogliere un numero di pazienti molto elevato nei servizi di terapia intensiva nell’eventualità che i contagi aumentassero molto rapidamente. Di qui la necessità di introdurre misure cautelative urgenti – aggirando il parlamento e sospendendo la Costituzione – non seguendo dati specifici e criteri scientifici ben definiti, ma parametri generali empirici di interruzione drastica dei contatti sociali.

L’interruzione è pienamente efficace quando è il più possibile restrittiva, ma superata una certa soglia di restrizione anche un regime totalitario non potrebbe supportarla perché metterebbe in discussione la sopravvivenza stessa delle persone. La maggior restrizione dovrebbe garantire una minore diffusione del contagio, ma non in modo proporzionale perché la diffusione del virus attraverso le relazioni umane è molto più imprevedibile delle sue vie di entrata nel corpo umano.

In generale le misure devono lasciare uno spazio di interpretazione e elaborazione personale che le rende più applicabili e funzionanti, diversamente creano uno stato di rassegnazione depressiva (lo stato psichico non adatto per affrontare, se si manifesta, la malattia) o una reazione trasgressiva (di sabotaggio della profilassi).

Quando le misure cautelative diventano troppo restrittive e impositive, mettono in crisi le nostre relazioni e la psicologia collettiva e minano il consenso libero ad esse. La retorica della campagna «io sto in casa» e lo slogan «cambiamo le nostre abitudini» (piuttosto che sospenderle momentaneamente e selettivamente), come se vivere negli spazi aperti, nei luoghi di incontro e di conversazione (gli alveoli che fanno respirare le comunità e la democrazia) fossero usanze nocive, sono operazioni di plagio vero e proprio, che infantilizzano e passivizzano i cittadini.

L’oggetto vero della limitazione non è la libertà di circolazione bensì la libertà d’interpretazione (senza la quale la prima perde il suo senso). Lo stato d’eccezione non solo sospende o abolisce l’ordinamento giuridico, le regole che introduce si impongono, non possono essere oggetto di giudizio e interpretate. Quando viene meno l’interpretazione, il consenso alle regole viene dettato dalla paura.

A questo punto però la paura non è più rivolta all’oggetto reale della preoccupazione che ha indotto la politica di profilassi, ma ad un pericolo indefinito che riguarda la vita stessa. Soprattutto se una crisi sociale profonda e un degrado altrettanto profondo del nostro rapporto con il mondo hanno creato un senso di destabilizzazione psichica forte. Lo stato d’eccezione incombe come forma di governo normale tutte le volte che prende forma un assetto fobico collettivo che non difende altro se non se stesso. Quando cioè l’eccezione si manifesta nella sua nudità: come eccezione alla vita.