Ci stiamo interrogando da qualche secolo sulla natura più intima del capitalismo, semmai si potesse sintetizzare in un solo aspetto, diverso dal fallimento epocale per l’umanità, questo sistema bulimico che inghiotte vite e territori. Dentro questa riflessione si trova parte del discorso sul mutamento, sulla natura patriarcale e coloniale della nostra esperienza, delle nostre culture, dell’idea di dominio.

DOPO UN VENTENNIO di dibattito sul land grabbing, si può iniziare a inquadrare ciò che è successo in termini storici, si è trattato di un processo di accumulazione su scala planetaria, di un’enorme sottrazione di spazi liberi, paragonabile per dimensioni solo a quelle dell’inizio della modernità. Un’ulteriore fetta del pianeta è diventata privata. A ogni crisi il capitale reagisce accelerando i suoi processi e aumentando la pressione sulla base del sistema, la terra e la biosfera, a ogni crisi riduce gli spazi di libertà.

Il volume che Maura Benegiamo ha costruito sul suo lavoro di ricerca, La terra dentro il capitale. Conflitti, crisi ecologica e sviluppo nel delta del Senegal (Orthotes, pp. 166, euro 20) condotto con una piccola comunità in lotta in Senegal, racconta una storia di resistenza che nasce dentro una marginalità di alcuni secoli, ci porta dentro le riflessioni di un gruppo nomade che si oppone all’esclusione, all’idea inaudita della chiusura della terra.

La storia da cui nasce questo libro è una vicenda periferica dei processi globali, un’azienda italiana partecipa a un progetto di produzione di olio di semi e all’acquisto di alcune decine di migliaia di ettari di terra, per poi ritirarsi qualche anno dopo per l’insostenibilità economica del piano. Nel frattempo si susseguono investitori, programmi istituzionali, dibattiti, interventi, nuove acquisizioni, il tutto riassumibile con una delle ideologie che hanno condizionato il pianeta: lo sviluppo. Una categoria che rappresenta un progetto politico di conquista, che l’autrice considera, ripartendo dalle riflessioni di Sanyal, uno spazio conteso, in cui si articola un conflitto politico e si inventano le nuove povertà.

LA PICCOLA COMUNITÀ peul è invece abituata a riconoscere lo sviluppo come quel progetto di sottrazione di libertà che la insegue da secoli, quella costruzione ideologica che la relega nello spazio del nomadismo arcaico e povero contrapposto alla ricchezza prodotta dalla monocoltura e dalle imprese estrattive.

È una ricerca condotta da Sud, offre lo sguardo di chi entra in conflitto e risponde usando i canali che trova, impara a vivere sul margine. Le dinamiche sociali sono descritte dall’interno di secoli di colonizzazione, in cui essere marginali significa sopravvivere dentro grandi mediazioni e cercare spesso l’invisibilità. È l’esatto opposto della lettura coloniale, quella per cui il capitalismo arriva per la prima volta e porta ricchezza. La produzione di nuovi margini è il modo con cui si trasformano i processi di accumulazione in un continente le cui ricchezze hanno contribuito a costruire il sistema attuale sin dalla sua origine. Proprio questo aspetto rende il testo, oltre che un caso applicato di ricerca nel campo dell’ecologia politica, un tentativo di tradurre una narrazione sulla natura del capitalismo, su un mondo plurale in cui esistono molte forme di opposizione, conflitti e margini abitati in modo diverso.

Lo sguardo che ci offre la comunità dei pastori nomadi è prezioso, è anche qualcosa che progressivamente si sta estendendo e moltiplicando tra le maglie dell’appropriazione assoluta del mondo, è il processo dentro cui stiamo vivendo in forme differenti e a cui un enorme numero di comunità si oppone ogni giorno.