Alla vigilia di un giubileo addirittura biennale – nel 2017 saran trecent’anni dalla nascita, e nel ’18 duecentocinquanta dalla morte – ha battuto tutti sul tempo, se non sbaglio, il Museo Archeologico di Firenze, con una mostra (inaugurata il 26 maggio e visitabile fino al prossimo 30 gennaio) eloquentemente intitolata Winckelmann, Firenze e gli Etruschi Il padre dell’archeologia in Toscana: progetto di Maria Fancelli, Giovannangelo Camporeale, Max Kunze e Stefano Bruni (catalogo ETS Pisa, con la collaborazione di Barbara Arbeid e Mario Iozzo). Merita peraltro d’essere ricordata un’altra non troppo dissimile, già realizzata in Germania dalla Winckelmann-Gesellschaft nell’autunno del 2009: Die Etrusker. Die Entdeckung ihrer Kunst seit Winckelmann, per le cure competenti del medesimo Kunze.
È noto come il talentuoso precettore e bibliotecario nativo di Stendal, nel Brandeburgo, si fosse trasferito trentottenne a Roma, dove il patronato di cardinali del calibro di Alberico Archinto e Alessandro Albani gli consentì di formare la sua expertise su un incomparabile campionario di monumenti antichi; mentre in Toscana ebbe modo di soggiornare tra il settembre del 1758 e l’aprile del ’59, trattenendosi di fatto nella sola Firenze, nonostante l’intenzione di condurre un canonico tour fra Volterra, Arezzo, Cortona, Chiusi e altre località d’interesse antiquario. È dato acquisito, fin dalle prime riflessioni sull’argomento proposte da Mauro Cristofani un quarantennio fa, che l’idea dell’arte etrusca di Winckelmann si sia formata in maniera pressoché definitiva, oltre che sui pezzi forti della raccolta granducale, soprattutto attraverso l’autopsia dell’eccezionale collezione di gemme intagliate, che appunto a Firenze aveva messo insieme il barone Philipp von Stosch. Rientrato a Roma e subito pubblicato, in lingua francese, il catalogo delle gemme Stosch (Description des pierres gravées, 1760), Winckelmann chiuse, in apparenza, la sua parentesi toscana ed etrusca, avviandosi alla grande stagione di quei capolavori saggistici che hanno fondato, fattualmente, la storia dell’arte antica – più che altro greca – intesa come lettura di stili cronologicamente sequenziali (in particolare, la Geschichte der Kunst des Alterthums, Dresda 1764). Solo in apparenza, tuttavia: perché l’esperienza di quei sette-otto mesi fiorentini aveva messo Winckelmann a confronto con le peculiarità di un’arte figurativa, l’etrusca, che gli appariva affine, per distinti e contrapposti versi, non meno all’arcaismo morfologico congenito a quella egizia, che all’immaginario figurativo e al narrare per immagini, propri di quella greca. La parentesi etrusca si svela così decisiva a orientare l’approccio storico winckelmanniano e all’origine di argomenti che ritorneranno puntualmente, appassionanti e irrisolti, in tutta la produzione successiva.
L’odierna mostra fiorentina occupa un unico ambiente del piano terra del Museo, introdotto dalla statua votiva dell’Arringatore, entrato nel terzetto dei grandi bronzi medicei per trafugamento dalla località di rinvenimento (Sanguineto sul Trasimeno, entro i confini dello Stato Pontificio): ma il neoeletto papa San Pio V, ad altri serissimi problemi intento, non se n’ebbe evidentemente a male, visto che giusto tre anni dopo, nel 1569, conferì a Cosimo il titolo di granduca. Invece gli altri due grandi bronzi, la Minerva e la Chimera, non sono stati sloggiati dalla loro abituale collocazione, e il visitatore li ritroverà facilmente al primo piano del Museo.
La strategia espositiva adottata dai curatori è quella, mi sembra, della ricreazione di una Kammer antiquaria del XVIII secolo, il tempo di Winckelmann, dove fossero radunati in un unico contesto opere editoriali e manufatti etruschi (o presunti tali) variamente presenti e citati nei suoi saggi di storia dell’arte: quindi la bibliografia scientifica disponibile a Winckelmann (in primis Thomas Dempster, Filippo Buonarroti e Anton Francesco Gori) e i non numerosi capisaldi (bronzetti, vasellame, urnette, glittica) su cui fu costruito il suo pionieristico tentativo. Questo è uno degli aspetti che più colpiscono il visitatore: quanto fosse ridotta, in termini quantitativi, la documentazione archeologica ‘etrusca’ giudicata utile all’elaborazione di un disegno storico. Insomma: tutta l’arte etrusca racchiusa in una stanza! Decideva, ovviamente ma non troppo, il criterio epigrafico: iscrizione etrusca, opera etrusca; iscrizione greca – ciò vale specialmente per le ceramiche a figure nere e rosse –, opera greca. Camporeale e Kunze, nel catalogo, insistono opportunamente su questa scelta di Winckelmann, invero cruciale ai fini di una distinzione pre-stilistica, e meritoria nel campo della pittura vascolare, dove egli precorse Luigi Lanzi ed Eduard Gerhard.
Nella prospettiva dell’officina di Winckelmann meritano d’essere segnalati, in particolare, il prestito, da parte del Museo di Stendal, dell’intera serie degli otto pannelli d’impronte in gesso dalla gliptoteca Stosch, distribuite secondo la classificazione tematica della Description; e l’emozionante «Manoscritto Fiorentino» dell’Accademia La Colombaria, taccuino di lavoro contenente, fra l’altro, appunti sulle sculture del Belvedere, passi della Geschichte in gestazione e rari schizzi sul canone proporzionale umano. Meno direttamente pertinenti al tema, ma oggi molto interessanti – alla luce dell’innovativa mostra Portable Classic, proposta a Venezia l’anno passato da Salvatore Settis – risultano le quattro più o meno piccole repliche in porcellana del tipo della Venere Medici, realizzate dalla manifattura Ginori di Doccia nella seconda metà del XVIII secolo. E, su questo intrigante tema del collezionismo di miniature scultoree, pare il caso di ricordare al visitatore del Museo Archeologico di trasferirsi poi a Palazzo Pitti dove, sino all’8 gennaio, sono esposte Splendida minima, vale a dire le «piccole sculture preziose» – così recita il sottotitolo – delle collezioni medicee (catalogo a cura di Valentina Conticelli, Riccardo Gennaioli e Fabrizio Paolucci, per la Casa Editrice Sillabe).
Ciò che tuttavia la mostra winckelmanniana – col suo taglio dichiaratamente antiquario e rétro (in accezione settecentesca), che sembra assecondare, fra i curatori, un penchant caratteristico dell’eruditissimo Bruni – non riesce o piuttosto rinuncia in partenza a trasmettere al pubblico, sono i temi della discussione storico-critica intorno all’arte etrusca, posti per la prima volta, con estrema lucidità, non solo nella Description e nella Geschichte, ma pure nei Monumenti antichi inediti (1767). Questi temi potranno essere invece accostati attraverso la lettura del catalogo, specie della sua seconda sezione, affidata a Camporeale e Kunze e ad Axel Rügler: e se Camporeale appare interessato soprattutto alle conoscenze storico-letterarie di Winckelmann, alle sue fonti e all’uso che ne faceva in ambito esegetico, sia Kunze sia Rügler colgono appieno la forte problematicità dell’adattamento del modello evoluzionistico alla storia dell’arte etrusca.
La questione, tutt’altro che oziosa, fu trattata già dallo scrivente in un lavoro giovanile, pubblicato nel 1988 nella rivista «Xenia» di Antonio Giuliano. Lo sviluppo dell’arte antica, nel disegno di Winckelmann, risponde, come tutti sanno, a un modello parabolico derivato, in ultima analisi, da Plinio il Vecchio o più esattamente dalle fonti ellenistiche di Plinio il Vecchio, con progressivo miglioramento dai primi due stili fino all’acme qualitativa del «bello» – riconosciuto nella fase per noi tardoclassica del IV secolo – e con inevitabile decadimento nel quarto, quello degli «imitatori» (arte romana inclusa). Rispetto a questo schema, organico alla rappresentazione storica dell’arte greca, quello analogamente parabolico proponibile per l’arte etrusca poneva due ordini di difficoltà: una difficoltà cronologica, in quanto occorreva stabilire una sensata relazione temporale tra le due esperienze e dunque, se si vuole insistere sulla metafora geometrica, una sorta di rapporto grafico tra le due curve – parallele? tangenti? secanti? –; e una difficoltà nel giudizio di qualità, che avrebbe dovuto pronunciarsi per un momento storico apicale, da mettere a riscontro (ma quando esattamente?) con un Bello ellenico non necessariamente parallelo.
Kunze e Kügler chiariscono in effetti come Winckelmann, dopo qualche incertezza iniziale, si rendesse conto della dipendenza iconografica dell’arte etrusca dalla mitologia figurata dei Greci e perciò della determinazione di un terminus invalicabile nell’età coloniale, circa tre secoli dopo la Guerra di Troia, prima del quale questa figuratività d’impronta ellenica sarebbe stata ovviamente inconcepibile. Ciò comportava dunque che, alle origini dell’arte etrusca, su una sorta di tronco arcaico egittizzante – vecchio cliché pseudocritico già presente nella letteratura antica – s’innestassero le storie e le immagini e, con queste, lo stile dei Greci. Dopodiché, l’arte etrusca avrebbe percorso il ramo ascendente della sua parabola, con assimilazione progressiva ma caratteristicamente manierata dello stile «elevato», rispondendo a un contesto etnico-psicologico, culturale e politico che era molto differente da quello greco.
Nel finale, peraltro, l’aporìa diventa ingovernabile: il terzo stile etrusco, che pur chiudeva la parabola, è quello in realtà più vicino ai modelli greci, i quali, alla luce della sequenza cronologica, non potevano che esser ‘belli’; ma, stando così le cose, questo ultimo stile etrusco non denuncerebbe una decadenza senza scampo, quanto piuttosto il compimento faticoso e sia pure imperfetto di un lungo apprendistato. Perciò: il modello non era più, in tal caso, a parabola? O la vera bellezza dell’arte etrusca andava ricercata – con sensibilità paradossalmente anticlassicistica – in quel di più di espressione, dettato da malinconia, da crudeltà e da superstizione, che aveva modellato il suo secondo stile?