La privatizzazione del potere politico
– Simona Granati
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La privatizzazione del potere politico

Beni comuni Dalla fine degli anni ’60 alla negazione, nel 2011, della volontà referendaria sull’acqua pubblica, fino alle privatizzazioni del governo Renzi
Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 14 giugno 2014

Solo dei fattori strutturali di natura radicale possono consentire di spiegare le ragioni del comportamento di un’intera classe dirigente nazionale che ha deliberatamente ed apertamente rifiutato di rispettare la volontà espressa da 27 milioni di cittadini. Più del 93% dei votanti nei referendum abrogativi del 12 e 13 giugno del 2011, si dichiarò contrario all’inclusione di un tasso di profitto del 7% nella fattura normalizzata del m³ d’acqua potabile. La volontà degli italiani é stata limpida: non si può né si deve fare profitto con l’acqua.

Lo stesso Presidente della Repubblica, il cui compito è di essere il garante del rispetto della Costituzione, non ha mai pronunciato, nel corso di questi tre anni, una singola parola di biasimo o di richiamo al rispetto dei risultati del referendum abrogativo che secondo il dettato costituzionale sono di immediata ed automatica applicazione. Come spiegare un fenomeno cosi grave? La “tradizionale” debolezza dell’etica politica dei nostri dirigenti non è un argomento sufficiente. Essa puo spiegare la corruzione endemica, ma non il rifiuto di rispettare la volontà degli italiani espressa in conformità alle regole costituzionali.

La spiegazione si trova a mio parere nelle due matrici culturali e ideologiche che sono alla base dell’argomento utilizzato dalla classe dirigente per opporsi al rispetto dei risultati referendari. Questo è consistito e consiste a dire che la decisione referendaria è erronea sul piano economico perché è impossibile togliere alle imprese private ed alle spa pubbliche la possibilità di coprire tutti i costi del servizio idrico, finanziari compresi, grazie ad una tariffa “garante” del prezzo “giusto” di mercato dell’acqua. Altrimenti detto, i dirigenti sostengono che gli italiani sono stati disinformati e tratti in inganno da argomenti tacciati di essere ideologici. Quindi, tocca alla classe dirigente correggere lo sbaglio nell’interesse dell’economicità ed effficienza di un settore cosi vitale come il servizio idrico che, secondo loro, deve restare privato e gestito in termini di criteri capitalistici di rendimento finanziario. Una maniera del tutto brutale per gettare la Costituzione alle ortiche in nome di valori puramente finanziari e mercantili.
Le due matrici radicali del fenomeno sono, da un lato, il livello endemico miserevole del “senso delo Stato” da parte delle classi dirigenti italiane, e, dall’altro, da trent’anni a questa parte, la distruzione della politica, sia nel senso della depoliticizzazione della res publica che dell’opposizione alla politica in nome e con i cittadini. Non rispettare la volontà dei cittadini in barba anche alle regole costituzionali significa, anzitutto, dimostrare di non possedere un forte senso dello Stato, né formale né reale. La sua debolezza ha accompagnato le fasi storiche del nostro Paese fin dalla costituzione dello Stato italiano, Regno e poi Repubblica.

Al momento in cui, alla fine degli anni 1960, la fine della “guerra” tra le due grandi forze popolari, i comunisti ed i cattolici, aveva fatto sperare che gli Italiani avrebbero potuto imparare ad educarsi al senso dello Stato, le classi dirigenti sono state prese dal virus della distruzione della politica, unite da una nuova cultura antidemocratica.

La distruzione della politica sotto forma di depoliticizzazione del vivere insieme è operata dai gruppi dirigenti a partire dagli anni ’70 in maniera trasversale a (quasi) tutti gli schieramenti politici e gruppi socioeconomici. Si sviluppa in seno soprattutto ai gruppi sociali dominanti una visione della vita e del mondo fondata sul primato dei mezzi – la tecnica (sempre di più chiamata ‘tecnologia’), il mercato, la finanza….) – tanto che negli anni ’90 anche i dirigenti italiani si convincono che è venuto il tempo della fine delle ideologie (niente più destra e sinistra) e che è cominciato il tempo della cultura del fare, della “crescita”, data come un fine in sé, un concetto universale, al di là delle frontiere e delle culture. Da qui la politica intesa come pratica di saper ben gestire le risorse materiali ed immmateriali, naturali ed umane, per far crescere il Pil, ed il ruolo centrale attribuito all’economia ridotta a scienza della gestione delle imprese per creare valore per il capitale finanziario.

Il primato va all’innovazione tecnologica delle imprese, specie private, agli esperti, al management e quindi alla sottomissione alle leggi del mercato libero su scala mondiale ed alla competitività (elevata al ango di finalità), ai meccanismi finanziari speculativi, alla mercificazione, monetarizzazione e privatizzazione di ogni forma di vita. Negli ultimi anni, le credenze ideologiche dei gruppi dominanti anche in Italia hanno messo in dubbio il primato dello Stato in quanto soggetto regolatore, fino ad affermare che l’ottimo consiste nell’avere sempre meno Stato e considerare che l’obiettivo ottimale da raggiungere sarebbe una stateless society (una società senza Stato), secondo le concezioni diffuse dalla grande maggioranza dei manuali di economia e di scienze sociali delle università americane del nord ed americanizzate del mondo da più di quaranta anni.

Specie in Italia è oramai diffuso il principio che il governo preferibile è quello dei tecnici e che in un mondo fondato sulle conoscenze, i dati e l’informazione globalizzata, istantanea, tutto dipende da modelli di management d’imprese private sul mercato che non lasciano alcun spazio alle finalità umane, sociali e politiche. L’economia globale dei mercati e della finanza è separata ed autonoma, sovrana, rispetto alle altre dimensioni. Per cui è di pochi giorni l’annuncio del governo Renzi di ridurre a meno di mille le 8 mila imprese ex-municipalizzate, svendendo cosi al settore privato, invece di rimodernare l’economia pubblica, la quasi totalità dei servizi locali che, altrove, in Germania, in Svizzera, in Belgio e in Svezia, restano di responsabilità ed in mano pubblica svolgendo un ruolo essenziale positivo sul piano socio-economico per i diritti,il benessere collettivo e lo sviluppo dei territori.

Inoltre, da noi, le classi dirigenti proclamano il loro scetticismo sulle forme di governo demo-cratiche rappresentative per non parlare di quelle partecipative dei cittadini. I processi democratici (i parlamenti, i dibattiti e le consultazioni pubbliche) sono considerati strumenti vecchi, palle ai piedi dei governi che vogliono e devono decidere subito, rapidamente senza troppe tergiversazioni. Di governo pubblico parlano sempre meno, mentre sempre di più praticano la governance economica fondata sui “portatori d’interesse” (gli stakeholders) che altro non è che la privatizzazione del potere politico. La nuova ondata di investimenti del capitale privato nel settore dell’acqua anche in Italia non è certo aliena alla tendenza dei dirigenti a privatizzare il potere politico.

Le proteste dei cittadini, le campagne di “obbedienza civile” (applicare la tariffa dell’acqua senza il 7% al profitto), le proposte di leggi regionali d’iniziativa popolare, le petizioni…anche quelle europee: occorre continuare le lotte di opposizione , dovunque, a tutti i livelli, ad ogni occasione (come Expo 2015 ). E’ tempo soprattutto di rivoltarsi in uno spirito di civismo politico e di etica pubblica contro l’arroganza spudorata delle élites italiane attuali.

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