La mozione leghista di sfiducia chiude ogni discussione. Il treno gialloverde è arrivato all’ultima fermata. Invero, attendeva da tempo l’autorizzazione ad entrare in stazione da parte di Salvini. In realtà la crisi era già aperta il 7 luglio con il voto Tav.

Per il governo il sottosegretario alla presidenza Santangelo (M5S) si è rimesso all’aula. Ma è stato bruciato sul tempo dal viceministro leghista Garavaglia, che a nome della Lega ha chiesto un voto pro Tav, «e contro chi blocca il Paese». Una esternazione impropria, consapevole e voluta. Qui comincia l’attacco della Lega.

Perché sul Tav – avendo ormai vinto – e non su temi aperti e di impatto ben maggiore per il paese come flat tax e autonomie? Perché così tardi?
Forse Salvini si aspettava che l’evidenza parlamentare di una maggioranza dissolta spingesse Conte alle dimissioni volontarie, spianando così la via verso il voto, senza lasciargli in mano il cerino acceso.

Può anche darsi che indecisioni e ritardi fossero in realtà una tattica studiata a tavolino per spingere Mattarella, a causa dei tempi stretti, a lasciare a Palazzo Chigi il governo dimissionario con lo stesso Salvini agli interni per gestire le elezioni. Che fosse vera incertezza o callido disegno, poco importa. Il disegno, se c’era, deve fallire.

Il passaggio parlamentare vedrà – salvo improbabili colpi di scena – un diniego della fiducia, cui seguirà un obbligo giuridico di dimissioni. In teoria, Mattarella potrebbe lasciare il governo dimissionario, o una sua riedizione, a gestire le elezioni e le incombenze ineludibili in agenda. Sembra proprio questa la pretesa dei leghisti quando gridano no a governi tecnici, no ad altre maggioranze, e subito al voto. Le tre cose si tengono insieme solo sull’assunto che l’esecutivo attuale rimanga in carica, ancorché dimissionario.

Potrebbe anche sembrare una risposta istituzionalmente corretta, ma nella specie è invece inaccettabile.

Sul ministero dell’interno poggia il procedimento elettorale e al Viminale c’è il Salvini candidato premier che chiede pieni poteri agli italiani. Basta pensare che spot sarebbe per lui un barcone di disperati in cerca del porto sicuro, lo sgombero di un edificio occupato, il crimine piccolo o grande commesso da una «zingaraccia» o da uno straniero di pelle scura. Si porrebbe una fondamentale questione di par condicio nella competizione elettorale.

Né sembrerebbe sostenibile mantenere Conte a Palazzo Chigi, liberandosi del solo Salvini, soprattutto se – com’è possibile – Conte fosse in corsa personalmente. Ne verrebbero quanto meno convulsioni politiche, e attacchi a Mattarella per parzialità. Quindi, tutti a casa, e – lo dice lo spread – senza tirare per le lunghe.

È futile colluttare su pochi giorni in più o in meno, quando è già partito l’appello al popolo da parte del soggetto politico oggi più forte nel paese.

Il problema è che Mattarella dovrebbe nominare un governo presumibilmente privo di fiducia. C’è un precedente. Nel 1987 era in carica il secondo governo Craxi, nato sul cd «patto della staffetta», per cui a Craxi sarebbe subentrato un presidente del consiglio Dc. Un «contrattino» dell’epoca. Craxi voleva sottrarsi all’impegno, e arrivò la crisi. Dopo alcuni tentativi falliti, il presidente Cossiga conferì l’incarico a Fanfani, che formò il suo sesto governo (monocolore Dc con alcuni tecnici).

Andò alla fiducia sulla base di una mozione Dc che aveva come primo firmatario Martinazzoli, segretario. Ma nel voto sulla mozione i DC si astennero, causando la vittoria dei no e la sfiducia. Fanfani si dimise, e rimase in carica per gestire le elezioni.

Non interessa qui approfondire come e perché accadde. Conta il precedente. Mattarella dovrà decidere se seguirlo, o lasciare a Palazzo Chigi l’esecutivo dimissionario – o una sua riedizione – in vista del voto e delle scadenze in agenda.

A noi sembra priorità assoluta che al Viminale sieda un altro ministro dell’interno.

C’è chi pensa a un governo di più lunga durata e con una (nuova) maggioranza, per una decantazione e il recupero dei valori repubblicani e costituzionali (Mazzarella, Avvenire dell’8 agosto). Quel recupero è certo la prima bandiera della battaglia elettorale. Ma usarlo come sponda per rinviare il voto, mentre si caccia la Lega da Palazzo Chigi? Rischiamo di regalare voti a Salvini martire.