Un secolo fa, nell’estate del 1914 il «mancato congresso» dell’Internazionale sancì il «fallimento» del movimento operaio dinanzi ai venti di guerra: le espressioni si devono a Georges Haupt, che in un tuttora indispensabile volumetto edito nel lontano 1965 cercò di indagare sulle ragioni della «tragica fine di tutta un’epoca del socialismo», con i lavoratori europei contrapposti sui campi di battaglia, a pagare il prezzo di una guerra decisa da ristretti circoli politico-militari e celebrata da intellettuali di ogni tendenza (tradotto in italiano da Samonà e Savelli nel 1970; una mirabile sintesi si trova nella raccolta postuma L’Internazionale socialista dalla Comune a Lenin, Einaudi ).

Oltre le divisioni nazionali

Dalla lezione di Haupt prende le mosse l’ultima ricerca di Maria Grazia Meriggi, che affronta in un’ottica di medio periodo e da molteplici punti di osservazione il problema delle forme e dei limiti dell’internazionalismo dei lavoratori (L’Internazionale degli operai. Le relazioni internazionali dei lavoratori fra la caduta della Comune e gli anni ’30, Franco Angeli, pp. 224, euro 30). Fedele alla tradizione della storia sociale classica, Meriggi va alla ricerca non solo della documentazione politico-ideologica, il «dover-essere» internazionalista che riecheggia nei congressi, nella stampa e nella propaganda, ma delle relazioni concrete fra lavoratori. Con la nazionalizzazione della società prodotta lungo il XIX secolo, anche i lavoratori si ritrovano segmentati in appartenenze che emergono soprattutto quando attraversano confini e si pongono come manodopera «straniera». L’assunto di fondo che anima queste pagine è che il «mercato del lavoro», cioè le forme di reclutamento della manodopera, produce frizioni, ma che queste possono essere ricomposte a partire dai «luoghi di lavoro», organizzando il conflitto di classe, che suggerisce linee di divisione «verticali» e non «orizzontali», «sociali» e non «etniche». Fra 1870 e 1940 – ma la periodizzazione potrebbe essere ovviamente estesa – una «tensione continua» spinge i lavoratori ai poli opposti della xenofobia operaia e della solidarietà internazionalista: le due risposte, escludere o integrare, poggiano tuttavia sulla medesima domanda, come «governare» il mercato del lavoro e impedire l’erosione di diritti, garanzie e salari?
I congressi operai ottocenteschi affrontano spesso la «faccia nascosta» dell’internazionalismo, le relazioni con gli operai stranieri. I loro atteggiamenti si innestano su forme precedenti di estraneità, non caratterizzate in termini «etnico-nazionali», ma che avevano svolto e continuavano a svolgere funzioni analoghe sul mercato del lavoro, come quelle della manodopera rurale immessa negli impieghi urbani, della migrazione collettiva di operai specializzati da una città all’altra o dell’afflusso di braccianti «forestieri» in occasione dei lavori agricoli. Ma occorre specificare – ed è un’altra continuità con la lunga stagione delle corporazioni di mestiere di antico regime (al centro di un capitolo dell’ultimo libro di Simona Cerutti, Étrangers, 2012) – che il discrimine non era tanto fra indigeni e forestieri, quanto fra lavoratori organizzati e non, fra regole o comunque forme di «economia morale» nella gestione del mercato del lavoro e loro rottura consapevole da parte del padronato. Impedire quel che oggi chiameremmo il «dumping salariale» è la radice ultima dell’internazionalismo operaio, ma anche la matrice delle scorciatoie che mirano a «proteggere il lavoro nazionale».

Le fonti della ricerca

Meriggi mobilita uno spettro di fonti che va dalla documentazione del movimento operaio alle carte di pubblica sicurezza. I carteggi primo-novecenteschi del Bureau socialiste internationale, la struttura di coordinamento della Seconda internazionale, confermano il rilievo delle migrazioni nella definizione dell’internazionalismo operaio, che agisce lungo linee convergenti: lottare contro il razzismo e il nazionalismo, fonti di pericolose divisioni in seno al movimento operaio; mantenere la libertà di movimento ed estendere agli immigrati i diritti dei nativi; organizzare i migranti, prima e dopo la migrazione, in modo che sfuggano alle manipolazioni padronali e non siano utilizzati contro gli scioperi o per comprimere salari e garanzie, andando ad alimentare così le divisioni in seno alla classe lavoratrice. Non tutto il movimento operaio si riconosceva in queste indicazioni e, ad esempio, dagli Stati Uniti giungevano richieste di blocco dell’immigrazione cinese, mentre in Europa si sollevavano distinzioni analoghe in merito al grado di civilizzazione e cultura dei diversi gruppi di migranti, oltre che sguardi ambigui sul lavoro nei territori coloniali. Al di fuori delle organizzazioni socialiste le posizioni potevano essere ancora più recise, come nel caso dei Jaunes francesi, un’effimera ma originale esperienza di organizzazione dei lavoratori che tentò di fare della xenofobia operaia – tentazione ricorrente nei periodi di crisi, ma localizzata e oscillante – una vera e propria ideologia: la «preferenza» nazionale, che i Jaunes associavano all’antisemitismo militante e che poi avrebbe conosciuto periodiche ricorrenze nel Novecento.
Contro le posizioni filopadronali dei «gialli» e dei loro eredi, consapevoli dal ruolo nefasto della divisione dei lavoratori i «rossi» opposero sistematiche campagne, centrate sull’autonomia dell’organizzazione operaia e sul conflitto di classe. Questo approccio, almeno in Francia, paese strutturalmente interessato, per ragioni demografiche da importazioni massicce di manodopera, ebbe la meglio, come evidenzia l’azione sindacale di organizzazione della «manodopera immigrata» e gli scioperi unitari che precedettero e accompagnarono la breve stagione del Front populaire. Ma su scala europea il sindacato, talora diviso per le scissioni delle componenti comuniste, dovette attraversare la difficile interpretazione della grande crisi del 1929, che lo colse ancora attardato a discutere di alti salari, produttività e difesa delle qualifiche. Solo negli anni Trenta si impose la convinzione della necessità di politiche economiche alternative, di una risposta non meramente assicurativa alla disoccupazione e della riproposizione di un ruolo centrale del sindacato nella gestione del mercato del lavoro e delle relazioni intersindacali nella regolazione dei flussi migratori, due compiti da non delegare agli Stati.

Un problema del presente

L’Internazionale degli operai è dunque un suggerimento di metodo, che invita allo studio «sul campo» delle «reali relazioni» fra lavoratori indigeni e immigrati e considera centrali per la definizione di questi rapporti i luoghi della produzione e i mercati del lavoro: lì va cercata l’origine delle fratture e delle difficoltà, poi amplificate nei quartieri di abitazione e nel tempo libero, dalle reti di relazione comunitarie e dal rapporto con le istituzioni (come scuole e chiese). Al di là dell’interesse storiografico, i problemi dei lavoratori e delle loro organizzazioni fra Otto e Novecento sono ancora ben vivi nel nostro presente: conoscerne la lunga vicenda è importante non solo per gli studiosi e inevitabilmente (e per fortuna) libri come questo hanno anche un significato civile.