«Chi ha un negozio passa il tempo ad aspettare clienti che non arrivano e noi taxisti spesso giriamo a vuoto. Non ci sono soldi, la gente è piena di debiti, non sa più come fare. E loro, Abu Mazen e Hamas, si combattono sulla nostra pelle». Nidal, taxista 47enne di Gaza city scuote la testa. Pensava di averle viste tutte negli ultimi dieci anni – tre offensive israeliane con migliaia di morti e feriti e distruzioni, combattimenti tra palestinesi, chiusure dei valichi di frontiera, disoccupazione record, scarsità d’acqua e mancanza di elettricità – e invece deve fare i conti anche con la politica del “disimpegno” da Gaza avviata dal presidente Abu Mazen e dal governo dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) a Ramallah. È un disimpegno economico, non territoriale, poiché Gaza dal 2007, anno della lacerazione tra il partito Fatah di Abu Mazen e Hamas, è sotto il pieno controllo del movimento islamico. L’Anp ha deciso di non pagare più quella che chiama «l’occupazione di Gaza da parte di Hamas» e di lasciare ai suoi avversari l’onere di provvedere ai bisogni della popolazione, in risposta, sostiene, all’intransigenza degli islamisti decisi a non rinunciare allo loro autorità sulla Striscia.

Tra aprile e maggio Abu Mazen ha deciso di tagliare del 30% lo stipendio, ma è più giusto definirlo un sussidio mensile, a circa 70mila ex dipendenti dell’Anp a Gaza ai quali dieci anni fa, dopo il “golpe” Hamas, era stato intimato di non lavorare per gli islamisti. Quindi ha annunciato che non avrebbe più pagato per l’acquisto del gasolio necessario al funzionamento dell’unica centrale elettrica della Striscia e garantito il pagamento della quota di elettricità che arriva da Israele. Il fine politico del “disimpegno” è evidente. Abu Mazen e i vertici dell’Anp sono convinti che questa prova di forza spingerà Hamas a cedere, forse sull’onda di proteste e moti di piazza causati dall’ulteriore peggioramento delle condizioni di vita. Obiettivo al quale a Gaza nessuno crede nonostante la crescente sfiducia della popolazione verso il movimento islamico e la sua amministrazione.

«Immaginare una rivolta contro Hamas è davvero difficile» ci dice Khalil Shahin, vice direttore del Centro palestinese per i diritti umani di Gaza (Pchr) «senza dubbio molti abitanti sono insoddisfatti, tanti parlano di fallimento delle politiche del movimento islamico che non ha mantenuto le sue promesse, a cominciare dalla fine del blocco israeliano di Gaza, al quale si è aggiunto quello egiziano». Tuttavia, aggiunge Shahin «da qui a pensare a una sollevazione ce ne passa. Anche perchè se la popolazione, o una parte di essa, da un lato non crede più ad Hamas dall’altro non ha fiducia nell’Anp a Ramallah. Nessuno vuole cadere dalla padella nella brace. Per questo non ci sarà la rivolta in cui forse spera Abu Mazen». Nel frattempo i civili, che da oltre dieci anni fanno i conti con il blocco israeliano e le politiche egiziane al confine di Rafah, pagano il conto della lotta di potere tra le autorità di Ramallah e quelle di Gaza. Shahin spiega che «il taglio del 30% dello stipendio agli ex dipendenti dell’Anp ha colpito proprio la quota di reddito mensile che migliaia di famiglie destinavano ai consumi, molto spesso quelli primari». Il resto dello stipendio, prosegue, «è destinato a coprire i debiti, spesso con le banche, fatti per sopravvivere». Occorre tenere conto, conclude il vice direttore del Pchr, «che i dipendenti dell’amministrazione pubblica di Hamas, circa 50mila, da tempo ricevono solo metà dello stipendio. Quindi quel 30% di reddito tagliato da Abu Mazen ha colpito i consumi e messo in ginocchio commercio e trasporti. Quei soldi che non arrivano più ogni mese da Ramallah, di fatto tenevano in linea di galleggiamento la fragile economia della Striscia».

A Gaza fanno notare che il “disimpegno” colpisce i civili e scalfisce appena Hamas che, ben organizzato e disciplinato, può contare su riserve finanziarie ed energetiche, predisposte da tempo, che gli consentono di affrontare lunghe crisi, dai conflitti armati con Israele ai contrasti con l’Anp di Abu Mazen. A Ramallah però sono convinti di poter innescare a Gaza una sollevazione. L’ultimo settore colpito in ordine di tempo è la sanità. Ne sanno qualcosa all’ospedale “Rantisi” di Gaza city, dove sono in cura decine di ammalati di cancro e l’ong Palestine Children’s Relief Fund (Pcrf) sta costruendo, con donazioni giunte da tutto il mondo, il primo dipartimento di oncologia pediatrica della Striscia. «Non c’è alcuna decisione ufficiale però da Ramallah non sono arrivati i medicinali salvavita e oncologici e nel giro di qualche giorno non sarà possibile curare bambini e adulti, perciò al Rantisi sono in piena emergenza. Noi come ong facciamo il possibile per dare una mano all’ospedale ma non basta», ci dice l’oncologa Zeena Salman del Pcrf. «Da quanto ci riferiscono qui a Gaza – aggiunge l’oncologa – i funzionari del ministero della sanità a Ramallah dicono a quelli di Gaza che i farmaci sono disponibili, eppure restano nei magazzini». La dottoressa Salman lancia un appello: «siamo medici e non entriamo in questioni politiche che non ci riguardano, qui però abbiamo ammalati gravi, molti sono bambini che per vivere hanno bisogno di quei farmaci e non meritano di essere abbandonati al loro destino».

Oltre agli aspetti umanitari si guarda allo sbocco politico di questa nuova crisi tra Ramallah e Gaza. «Tutto rientra nel quadro regionale che si va delineando» afferma il giornalista Aziz Kahlout «Gaza e la questione palestinese diventano sempre meno importanti, per gli occidentali e per gli arabi. Gaza sarà lasciata al suo destino, governata da un Hamas di fatto prigioniero e isolato. Si lavora a uno Stato di Palestina solo in Cisgiordania».