L’omicidio della giovane donna a Terzigno da parte del marito, ha risollevato, nel modo infruttuoso di sempre, la questione della prevenzione di fronte a tragedie annunciate, spesso precedute da minacce denunciate dalle vittime stesse.

La gestione del problema da parte delle forze della polizia è inadeguata. I poliziotti, uomini nella stragrande maggioranza, non sono culturalmente e professionalmente preparati ad affrontare la violenza domestica che tendono a sottovalutare. Per una certa indulgenza nei confronti della violenza maschile (fa la sua parte la negazione della colpa che ogni uomo sente nei confronti delle donne a causa della violenza del proprio privilegio sociale).

Per una diffidenza nei confronti delle denuncianti che nasce dall’invidia dell’uomo nei confronti della sessualità femminile e della sua emancipazione. Per l’inclinazione a affrontare i conflitti coniugali in termini di buon senso anche quando la violenza è la prova di un’unione insensata fondata su false premesse.

Affidare le denunce di maltrattamenti domestici e delle minacce di morte a equipe specializzate della magistratura e delle forze dell’ordine coadiuvate da esperti dei risvolti psicologici, sociologici e antropologici della violenza, è necessario. Istituire strutture di sostegno psichico per gli uomini violenti, aiutarli a sostenere il peso di una separazione che sono totalmente inabili a gestire, è il più utile degli insufficienti mezzi preventivi a nostra disposizione.

Usare la pena come puro strumento di prevenzione è controproducente. Molti degli assassini delle proprie donne si uccidono, a riprova del fatto che l’omicidio della partner è anche il suicidio della loro residua capacità di amare. Nessuna punizione può fermare chi sfida la morte, che lo invade da dentro, identificandosi con la sua forza distruttiva. Costui anche quando non si uccide resta in vita in nome suo come morto vivente. La severità delle conseguenze legali del proprio gesto rinforza l’atteggiamento di sfida, la determinazione di dare la morte, facendosi giustizia da solo (come ha scritto nelle sue lettere di addio l’assassino di Terzigno).

L’atteggiamento dei media non è di aiuto. È nella loro impostazione (il paradigma commerciale dell’attuale modo di vivere) “vendere” le notizie sollecitando un acquisto impulsivo/compulsivo da parte della loro clientela che le consuma subito, lasciando poco o nulla alla sedimentazione di emozioni, sentimenti, pensieri.

Creano una dipendenza dei lettori, dalla quale dipendono, da contenuti impressionanti, antidepressivi che contraddicono l’elaborazione del dolore e schermano la loro sensibilità di fronte a perdite gravissime che minano la convivenza civile. Offrono, inoltre, involontariamente, ampissima risonanza agli assassini che nel clamore suscitato dalla loro azione distruttiva cercano una loro legittimazione perversa: la loro “voce” sopraffà quella della donna uccisa, si impongono all’attenzione del pubblico, diventano i suoi eroi negativi. Nella società dello spettacolo vince sempre chi ruba la scena. La donna ridotta a vittima è oscurata.

La severità della pena traccia un limite invalicabile tra la vita e la morte, porta le donne fuori dalla condizione spersonalizzante di vittime, rende il loro rispetto un pilastro della Polis e la sua violazione temibile per tutti i cittadini. Nulla può prevenire se la società, che difende la donna sul piano legale, odia il suo desiderio, ne teme la potenza destabilizzante. Una società che colpisce gli uomini violenti, continuando a procrearli, è come un’Idra di Lerna che usa Ercole per riprodursi più rigogliosa.