Catiuscia Marini non è più la governatrice della Regione Umbria. Indagata per concorso in abuso d’ufficio, rivelazione di segreto e falso nell’ambito dell’inchiesta della procura di Perugia sulla sanità umbra, al centro di un fuoco incrociato di polemiche, sotto lo scacco di due mozioni di sfiducia presentate dai consiglieri regionali della destra e del Movimento Cinque Stelle, infine scaricata anche dal suo stesso partito, la «zarina dell’Appennino» ha abdicato ieri sera all’ora di cena, al culmine di una giornata passata in una stanza di palazzo Donini insieme agli uomini e alle donne della sua maggioranza.

La ricerca di una via d’uscita dalla crisi cominciata venerdì scorso con gli arresti e gli indagati per un presunto concorso truccato dell’anno scorso, evidentemente, non ha prodotto risultati e alla fine le dimissioni sono state rese pubbliche con un laconico post su Facebook in cui la prima cosa che Catiuscia Marini dice è di essere «una persona perbene» e di fare un passo indietro «per tutelare l’istituzione».

Il segretario Nicola Zingaretti – che in mattinata aveva inviato un implicito invito a lasciare – dal canto suo quasi esulta ed elogia la volontà della governatrice di voler «evitare imbarazzi e strumentalizzazioni per la sua Umbria». Gli avversari, intanto, affilano le armi: la destra è convinta di essere ormai sul punto di marciare sulle macerie del centrosinistra e di conquistare una regione storicamente rossa, mentre il Movimento Cinque Stelle appare quasi in difficoltà, forse non ancora pronto ad affrontare la sfida delle urne in anticipo. Intanto, l’unica cosa certa è che a fine maggio in Umbria si voterà in sessantatré comuni su novanta, tra cui il capoluogo Perugia, già in mano al centrodestra dal 2014.

L’ultima giornata da governatrice di Catiuscia Marini si era aperta con i peggiori sospetti. In mattinata, al suo ingresso nel palazzo della Regione, ha attraversato la folla di cronisti e telecamere con il telefonino attaccato all’orecchio e lo sguardo rivolto verso il basso. Unica dichiarazione: «Parlerò dopo in aula». Peccato che lei in aula non ci sarebbe mai andata, preferendo chiudersi nel bunker con i suoi per pianificare il da farsi. Da Roma, intanto, cominciavano a piovere pietre. Il primo a sparare è stato Carlo Calenda: «Ci sono delle intercettazioni vergognose, deve dimettersi». Il riferimento è alla voce di Marini che spunta fuori nei faldoni della procura in una effettivamente imbarazzante discussione sulla raccomandazione di una parente di un ex funzionario della Lega Coop per un posto da assistente amministrativo. Intanto il segretario Zingaretti si muoveva in maniera più felpata, ma comunque pungente, dichiarando: «Confido nel senso di responsabilità e nelle valutazioni della presidente Marini perché faccia ciò che è meglio per l’Umbria e la sua comunità». Chiusi i portoni nazionali, Marini non ha trovato sponde nemmeno tra i papaveri locali del partito. Il commissario regionale Walter Verini, interpellato sull’argomento, si era limitato a rilasciare una dichiarazione ben poco solidale: «Spetta a lei decidere…». Poi aveva incontrato direttamente la governatrice, evidentemente per convicerla a fare il passo indietro.

I dirigenti del Pd, d’altra parte, da giorni vivono sull’orlo di una crisi di nervi: lo scandalo umbro rischia seriamente di rovinare la piccola risalita nei sondaggi delle ultime settimane, e le intercettazioni che continuano a uscire di certo non hanno aiutato la presidente, che appare come parte di un sistema che decide vita, morte e miracoli degli apparati pubblici locali, anche forzando le procedure.

La paura che nei prossimi giorni – quando verranno ascoltati l’assessore alla Sanità Luca Barberini e l’ex segretario regionale Giampiero Bocci, entrambi ai domiciliari – usciranno fuori nuovi elementi è fortissima, ed è da qui che deriva la decisione del Pd di giocare d’anticipo e decapitare da solo la propria giunta regionale. All’inizio di questa vicenda, venerdì scorso, la linea del partito era opposta: mettere la testa sotto la sabbia e sperare che la tempesta passi in fretta. Poi, mentre la questione invece di sgonfiarsi continuava a crescere, la retromarcia: scaricare Marini e compagni per provare a ripulirsi l’immagine e giocarsi le elezioni con un vestito nuovo.

La governatrice ha scelto allora di sacrificarsi, o meglio, è stata sacrificata sull’altare di un calcolo politico in fin dei conti comprensibile: la situazione stava diventando troppo pesante per poterla nascondere dietro le solite frasi di circostanza sulla «fiducia nella magistratura» e sulla volontà di «andare avanti». Serviva uno scalpo da poter esibire come trofeo. Marini si è trovata così nel bel mezzo di un incrocio in cui tutte le uscite erano bloccate. La resa è stata inevitabile.