La vittoria dei Talebani in Afghanistan ha aperto in questo mese una discussione tra gli analisti riguardo alla difficile situazione dello jihadismo in Africa e nel Sahel in particolare. Molti hanno visto un parallelismo tra il ritiro americano e l’annuncio, lo scorso giugno, del presidente francese, Emmanuel Macron, riguardo al progressivo ritiro dei militari francesi della missione anti-jihadista Barkhane dopo 8 anni di intervento militare di Parigi in Mali, Niger e Burkina Faso.

GIÀ PRIMA DELLA CADUTA di Kabul, Iyad Ag Ghali, leader del Gruppo di sostegno per l’Islam e i musulmani (Gsim), si era «congratulato con la perseveranza dei Talebani» e aveva invitato «i suoi sostenitori a ispirarsi a essa», visto che lo stesso gruppo jihadista è affiliato al network globale di Al Qaeda con cui i Talebani, nonostante le dichiarazioni di facciata con i governi occidentali, hanno legami storici.

Sono diversi anni che l’Africa è diventata l’epicentro dell’attività jihadista a livello globale, Al Qaeda attraverso il Gruppo di sostegno per l’Islam e i musulmani (Gsim) che ha inglobato numerose formazioni – Al-Qaeda nel Maghreb (Aqmi) e la Katiba Macina – nel Sahel o il gruppo Al-Shabaab in Somalia e lo Stato islamico nella regione del lago Ciad (Nigeria, Camerun, Ciad) e nell’Africa centrale (Repubblica Democratica del Congo, Mozambico). Al Qaeda ha tollerato l’emergere dell’Isis nel Sahel – lo Stato islamico del Gran Sahara (Eigs) – per quasi quattro anni, ma la pacifica convivenza si è interrotta nel 2020 con uno scontro feroce tra le due formazioni che ha avuto gravi ripercussioni sui civili coinvolti nel fuoco incrociato.

LA MANCANZA DI GOVERNANCE e di servizi da parte dei governi centrali in numerose aree del Sahel ha costretto le comunità locali a cercare protezione dal Gsim o dallo Stato Islamico contro gli attacchi dell’altro gruppo e delle rappresaglie delle forze di sicurezza governative nella regione dei “tre confini” (Mali, Niger e Burkina Faso).

Una differenza sostanziale è legata comunque al progetto politico di questi gruppi. Quello dei Talebani è prima di tutto nazionale, con l’obiettivo di sostituire il governo, alla luce della loro esperienza al potere tra il 1996 e il 2001. I principali gruppi jihadisti saheliani, compreso lo Gsim, non hanno l’ambizione di trovarsi a capo di uno Stato centralizzato, nonostante Iyad Ag Ghali non sia certo estraneo allo stato maliano visto che è stato un diplomatico governativo in Arabia saudita.

NEL SAHEL ALTRI SCENARI sono più realistici di un’offensiva in stile talebano, in particolare, quella relativa all’arrivo al potere di islamisti non violenti a causa delle difficoltà di alcuni paesi, come in Mali dopo il recente colpo di stato militare. Nell’ultimo periodo le autorità maliane hanno, ad esempio, deciso di negoziare «con tutti i figli del Paese», compresi alcuni gruppi jihadisti locali, rompendo con la posizione francese.
Dopo otto anni di intervento diretto di Parigi, lo status quo nel Sahel è comunque diventato insostenibile. Sulla scia di un nascente Stato islamico e della possibile cooperazione tra i suoi militanti nel Sahel e nel lago Ciad, i governi regionali e gli attori internazionali hanno forse compreso che devono impegnarsi non solo da un punto di vista militare, ma soprattutto politicamente come attori di azioni di sviluppo sociale, economico con l’obiettivo di radicarsi nelle dinamiche locali, godendo del sostegno e dell’accettazione popolare.

UN APPROCCIO che sembra essere emerso maggiormente alla luce anche del vertice di questo martedì a Niamey dei paesi del G-5 Sahel (Mauritania, Mali, Niger, Ciad e Burkina Faso) visto che «quando le popolazioni locali percepiscono le fazioni jihadiste come parte della soluzione per sostenere i loro bisogni di base quotidiani immediati, l’azione militare non basta» ha dichiarato il presidente burkinabé, Roch Marc Kaboré, al termine del vertice .

«Abbiamo bisogno – ha aggiunto – di migliorare la capacità militare dei nostri eserciti totalmente inadeguata a contrastare le milizie jihadiste meglio equipaggiate e organizzate, ma necessitiamo soprattutto di fondi della comunità internazionale per programmi di sviluppo, visto che i gruppi jihadisti capitalizzano le lamentele locali e che le soluzioni devono arrivare proprio da lì».

IL FALLIMENTO AMERICANO in Afghanistan è «la dimostrazione del fallimento francese nel Sahel visto che nelle ultime tre settimane ci sono stati quasi 150 morti in attacchi in Mali, Burkina Faso e Niger» ha detto a France24 l’esperto di jihadismo in Africa, Wassim Nasr, indicando che questo ritiro illustra «l’incapacità degli attori internazionali di soddisfare le aspettative delle popolazioni, che prima di tutto vogliono vivere al di fuori dell’insicurezza», visto anche il crescente malessere delle comunità locali riguardo alla presenza di truppe straniere e agli scarsi risultati sul campo.
Anche nel Sahel, secondo Nasr, stiamo assistendo a ciò da cui i ricercatori mettono in guardia da anni: «La necessità di avere un approccio politico che renda le popolazioni locali protagoniste, visto che la sola risposta militare si è dimostrata fallimentare, come è avvenuto in Afghanistan».