Nel capitolo della Banalità del male centrato sul profilo biografico e psicologico di Otto Adolf Eichmann, Hannah Arendt ricordava come il difensore Robert Servatius avesse definito quelli commessi dal suo assistito atti «per cui si viene decorati se si vince e si va alla forca se si perde». Anticipando con non eccessiva lungimiranza l’esito effettivo del dibattimento, l’avvocato di Colonia finiva per riecheggiare le parole di Goebbels, che già nel 1943 aveva dichiarato: «Passeremo alla storia come i maggiori statisti di tutti i tempi, o come i più grandi criminali». Che il generale della Repubblica Serba di Bosnia Ratko Mladic – attualmente sotto processo all’Aja per genocidio e crimini contro l’umanità – sulle orme dei gerarchi nazisti non abbia esitato ad addentrarsi nell’abisso morale implicito in una simile alternativa è un dato che di per sé non sembrerebbe fornire particolari spunti romanzeschi. Ma che accade se per ragguagliare il lettore su un azzardo così mostruoso si adotta il punto di vista di chi, sempre per citare la Arendt, ha vissuto a lungo in piena armonia con l’Eichmann di turno, fino a condividerne «le stesse menzogne e gli stessi trucchi», indispensabili per proteggersi dalla verità? Quali reazioni è in grado di innescare l’inattesa rottura di una lente così deformante, nonché la progressiva messa a fuoco di una realtà tanto spaventosa quanto inaccettabile?
Nel suo sesto, notevolissimo romanzo La figlia (Sellerio, traduzione di Silvia Sichel, pp. 488, euro 16) Clara Usón affronta senza remore questi interrogativi a partire dalla vicenda della primogenita di Mladic, Ana, studentessa ventitreenne di medicina, legata al genitore da un amore assoluto e obnubilante sintetizzato nelle righe seguenti: «Sì, il generale Mladic poteva essere terrificante, ma Ratko, suo padre, era adorabile». Ovviamente, la Usón non è così sprovveduta da definire il volto domestico del suo Mladic «non solo normale, ma perfino ideale» – come invece affermò uno degli psichiatri incaricati dal tribunale di Gerusalemme di stilare una perizia su Eichmann. E, in generale, la scrittrice nata a Barcellona nel 1961 si guarda bene dall’avventurarsi su scivolosissime chine che potrebbero far ipotizzare da parte sua il tentativo di riabilitare seppur in parte la figura del militare. Al contrario, un uso calibrato del discorso indiretto libero le consente di mettere a nudo i meccanismi difensivi utilizzati da Ana per mettere l’immagine idealizzata della sua famiglia al riparo dalle smentite sempre più aggressive e spiazzanti dei fatti.

Uno schema collaudato di autoinganno e rimozione che regge, finché all’improvviso una scoperta casuale – consumatasi per ironia del destino sul terreno più filoserbo che si possa immaginare, ossia quello fraterno della Russia – non farà precipitare la giovane in una radicale, ossessiva revisione di quel passato prossimo che fino a poco prima le era parso assolutamente «banale». A cominciare da uno dei suoi ricordi più idillici, quel mattino soleggiato in cima al monte Treskavica, quando aveva raggiunto il padre al fronte e, in attesa di festeggiare il proprio compleanno con un ameno picnic, aveva ingannato il tempo sparando insieme alla madre qualche colpo di mortaio oltre le linee nemiche. Dopo aver visto nell’appartamento di un corteggiatore moscovita un documentario sulle «prodezze» di suo padre in Bosnia, Ana Mladic sarà costretta per la prima volta a interrogarsi sulle conseguenze delle proprie azioni: «Stavolta l’evocazione della scena non si fermava nel momento in cui il proiettile del mortaio si alzava al di sopra della cresta rocciosa, ma lo seguiva oltre, finché non tracciava un’elegante curva e scendeva a velocità vertiginosa sul versante ombroso del monte (…) Chi c’era dall’altro lato di Treskavica?».

 

Spetta a Danilo il compito di demolire definitivamente l’immagine edulcorata che Ana contro ogni evidenza si ostina a divulgare di suo padre: un uomo affettuoso, colto, pantofolaio, amante degli scherzi e delle api

 

 

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Se per Ana il distacco dalla retorica nazionalistica coincide con la tardiva attribuizione di un volto umano al «nemico», nel romanzo della Usón non manca chi al famigerato sogno della Grande Serbia si è sempre dimostrato immune, vuoi per retroterra familiare, vuoi per scetticismo personale. È il caso di Danilo Papo, studente di letteratura inglese, ex spasimante respinto della figlia di Mladic, nonché «autore» di una sarcastica «galleria di eroi serbi» finalizzata alla decostruzione dell’identità nazionale, a partire dalla battaglia della Piana dei Merli (1389) e dal mito vagamente paranoico di una Serbia accerchiata, sempre in procinto di scomparire dalle carte geografiche per colpa di perfidi traditori. Onde non scivolare in una delle telenovele tanto care ad Ana, l’autrice intreccia con accortezza la linea narrativa imperniata su casa Mladic con una serie di capitoli di carattere storico-documentario affidati alla voce smaliziata di Danilo, ostali (outsider) nato che, da buon sarajevese, potrebbe pregare per i suoi avi in cinque modi diversi e proprio per questo è convinto che «sentirsi orgogliosi di essere serbi e non sloveni è idiota almeno quanto essere felici di vivere in un appartamento del quinto piano scala A piuttosto che al secondo scala B». A lui spetta il compito di demolire definitivamente l’immagine edulcorata che Ana contro ogni evidenza si ostina a divulgare di suo padre: «un uomo affettuoso, colto, pantofolaio, amante degli scherzi e delle api».

Eppure dalla lettura dei capitoli attribuiti alla penna di Danilo non si esce molto più rinfrancati che dai disturbanti resoconti delle scampagnate con tanto di fuoco d’artiglieria della famiglia Mladic. E questo non solo perché la sua galleria di «eroi» include personaggi quali Slobodan Milosevic o Radovan Karadzic, ma anche perché dopo la morte del padre nell’assedio di Sarajevo persino il pacifico disertore battezzato in onore di Danilo Kis si lascerà andare a un atto di vendetta dalle conseguenze ignote, benché presumibilmente nefaste. Intrappolati per sempre nella loro dimensione filiale, Ana e Danilo sembrano brutte copie di eroi shakesperiani, interpreti goffi di Ofelia e Amleto, cui l’autrice non risparmia tratti innegabilmente grotteschi. Ma, in realtà, il vero nume tutelare della narrazione è Lev Tolstoj, con il quale la Usón intesse un raffinato gioco intertestuale, divertendosi ad adombrare con vago sadismo la drammatica fine di Ana nella somiglianza con Anna Karenina constatata dal suo ammiratore moscovita, o ad amplificare la presa di coscienza della protagonista con ossessive reminescenze dal racconto Dopo il ballo, in cui la giovane Varen’ka perde il suo più fervente corteggiatore, dopo che quest’ultimo ha visto il padre di lei, ufficiale zarista, punire crudelmente un sottoposto. Anche se il romanziere pacifista di Jasnaja Poljana non sarebbe mai riuscito a immaginare la mostruosa lucidità della constatazione che l’autrice mette in bocca a Mladic alla vigilia dell’attacco a Srebrenica per consegnarlo ipso facto al tribunale della Storia: «Le persone non sono pietruzze o chiavi che possono essere spostate da una tasca all’altra. Non è possibile ottenere in modo incruento che in una parte del paese rimangano solo i serbi. Non so come lo spiegheranno al mondo i signori Krajisnik e Karadzic. Questo si chiama genocidio».