Quanto la pandemia abbia consegnato l’esigenza di ripensare la relazione con l’alterità, – dal come stiamo vivendo a quando si arriverà ad averne contezza e misura – è stato, ed è, al centro di alcune discussioni pubbliche. I punti cruciali, interrogati a più riprese, sono stati numerosi, in uno scenario piuttosto inedito. Due libri, nati nell’ambito della Società psicoanalitica italiana, indagano ciò che sta al margine ed è al contempo fondante: Prendersi cura, (Alpes, pp. 169, euro 15) titolo di una collettanea di interventi che vanno dalla filosofia al cinema e alla psicoanalisi, grazie a Roberto Esposito, Bahman Kiarostami, Fabio Dei e Ginevra Bompiani, per citare alcune delle firme presenti.

Per le cure di Lorena Preta (che costruisce anche un’attenta introduzione al testo) e con la prefazione di Anna Maria Nicolò, «prendersi cura» – di qualcosa o qualcuno – è l’irriducibile che non si può rimuovere. Frutto di un ciclo di seminari svolti tra il 2018 e il 2019, Preta nella sua introduzione colloca quella discussione alla prova di un’epidemia planetaria, là dove la vulnerabilità assume un significato più situato, sia pure si tratti di una «tematica originaria» che emerge ora in maniera più cogente e dolorosa. Arrivare al mondo dunque, nella percezione di una ferita che ci precede – attinente all’umano – e ci supera – non riguarda cioè solo noi stessi.

In tale direzione, complementare è la lettura dell’ultimo numero della rivista Psiche dedicato al tema «Noi Altri», (Il Mulino, pp. 322, euro 30) per riflettere sui rapporti che la psicoanalisi intrattiene con il resto del mondo e viceversa, come specifica Stefania Nicasi nel suo editoriale, e che, in questo momento storico, appaiono ancora più centrati ad allargare trame e orizzonti. Sul turbamento prodotto dal pronome noialtri, rafforzativo e limitativo di «noi» e stretto in un insieme intimo, scrive Nadia Fusini a proposito dell’aspetto paradossale e inquieto di identità forzate e differenza.

Dialogare, rispecchiare, sconfinare, incontrare, negare, accordare, nelle varie sezioni del volume in cui si dipanano i singoli contributi, fra i più interessanti c’è quello di Daniele Biondo che a margine dell’emergenza coronavirus mostra alcuni aspetti di ciò che, dall’aprile 2020, si è fatto avanti nell’ambito degli interventi sanitari del Ministero della salute in relazione al supporto psicologico. Qui il prendersi cura assume tratti e fisionomie precise, insieme al significato dell’alterità, elementi che vanno a scandagliare «il patto di convivenza civile alla prova del lutto e del trauma». La Società psicoanalitica italiana ha partecipato, con circa 400 volontari, rispondendo a richieste di aiuto e attuando ripetuti colloqui telefonici.

Da ciò che risulta a Biondo, psicoterapeuta e psicoanalista, anche dirigente del «Centro Alfredo Rampi Ets», sarà il caso di riflettere sull’«effetto traumatico diffuso» giacché il «sovraccarico di morte» ha interessato a più livelli tutta la popolazione, operatori ma anche famigliari e malati; intanto a dilagare sono tristezza e depressione oltre che sentimenti quali paura e rabbia. Ciò nonostante, secondo l’autore, la tenuta sociale – almeno fino alla data in cui ha licenziato il testo – c’è stata e varrebbe la pena continuare a lavorarci.

PER ARRIVARE A OGGI PERÒ, ovvero per considerare quanto si sia mosso nei primi mesi della pandemia rispetto a quanto stiamo affrontando adesso, Il silenzio delle campane, il volume di Letizia Paolozzi e Alberto Leiss appena pubblicato per Harpo (pp. 192, euro 18), fin dal sottotitolo entra nel vivo dei temi. I virus della violenza e la cura, secondo l’autrice e l’autore, acquistano spazio di posizionamento. Quanto accaduto è una lunga carrellata, quasi in presa diretta, dei fatti salienti che hanno attraversato non solo la pandemia ma ciò che si è agitato nella sua durata – di diverse ondate e ulteriori disposizioni – quindi la politica, nella forma della sua rappresentazione e intensità delle pratiche di relazione. Il libro ha il merito di raccontare le vistose storture di un transito in cui a malapena si è potuto discutere sensatamente, tra retoriche guerresche, vecchie e nuove, e infine l’ingiustizia e la disuguaglianza sociale erano (e sono) ormai fuori da ogni ragionevole argine.

Le contraddizioni messe in fila ripercorrono centinaia di pagine di quotidiani e altrettante agende istituzionali cominciando dalla dicotomia malattia/guerra per arrivare a ciò che ha guastato incontrovertibilmente ogni confronto, pensiamo ad esempio al tenore dell’opacità (tutta strumentale) tra stato di polizia e stato di prigionia che al netto di una scotomizzazione evidente ha prodotto derive indifferenziate e, dicono Paolozzi e Leiss, senza andare al fondo delle parole né delle immagini evocate. Quella del «sesso della guerra» ne è un fulgido emblema quando sarebbe bastato rispolverare Susan Sontag e il suo Malattia come metafora per non cedere alla trappola inconcludente di un linguaggio – medico e politico – utilizzato almeno dalla fine dell’Ottocento: vi è una certa idea inutilmente bellicosa secondo cui stiamo combattendo contro qualche nemico non ben identificato (da un punto di vista meno fantasmatico bensì di storia della medicina vale la pena citare l’edizione accresciuta di Pandemie, di Mauro Bologna e Aldo Lepidi per Bollati Boringhieri).

È UNO SCENARIO sofferente puntellato di precarizzazione ciò che vanno disegnando Paolozzi e Leiss quando ricordano che il Covid-19 non ha bloccato la produzione, non ha chiuso le fabbriche, in uno spaccato sociale molto diverso da quello descritto da Marx ed Engels si è riaffacciata la classe lavoratrice che oltre a non essersi mai fermata ha dovuto incassare il refrain da balconata del «Dove andranno tutte queste persone». Un mercato dilaniato e dissennato, le prime a farne le spese sono state le donne, perdendo un proprio reddito e costrette a occuparsi e prendersi cura, non sempre con gioia visto il carico abnorme di lavoro, della famiglia (in senso ampio poiché, come prima della pandemia, si è trattato anche di quella di origine).

La violenza e la cura hanno allora sembianze strutturali che pur tuttavia, nella restituzione pensata da Paolozzi e Leiss, comportano diversi registri, uno in particolare si interroga – nella modalità del diario di bordo intorno allo smarrimento comune che ha lacerato ogni esistenza: ci sono passaggi tra cronaca e memoir che restituiscono le istruzioni, insieme alla perdita, al pensiero magico del «saremo tutti migliori» fino al non sapere, vero tema quest’ultimo nella sua impronunciabilità: «Qualcosa di oscuro emerge dall’anima, insieme alla nostalgia per il contatto con gli altri, amati, conosciuti»; e ancora: «Avrai l’opportunità di ascoltare cose di te sommerse, inaudibili fino a questo momento; sarà bello tuffarsi nell’interiorità, nel profondo dove circolano desideri, fantasticherie, sogni». Una mitologia melliflua della interiorità, per tacere della solitudine – non ontologica bensì più prosaicamente tecnica – e dell’abbandono in cui ci si è trovati.

Anche il modo in cui è stata affrontata la vecchiaia, cui si aggiungono l’adolescenza e l’infanzia (un capitolo del volume è dedicato proprio alle bambine e ai bambini) fa capire il nesso categoriale che non è stato anagrafico ma appunto di cattiva gestione dell’angoscia collettiva puntata verso bacini mutevoli, di volta in volta. Con la differenza che ai «diversamente giovani» gli anni «precipitano addosso». E non si sa però cosa sia peggio augurarsi: che si percepisca la fuggevolezza di ciò che rimane o d’altro canto che si intuisca di averne potenzialmente tanta, di vita davanti, ma non immaginare come e se sia lecito desiderarla.

DELLA POLITICA che non ha mostrato autorità, Paolozzi e Leiss fanno una radiografia piuttosto puntuale, e non per porsi a un livello sperequato di critica ai governi che si sono succeduti, bensì per dire finalmente che tante banalità ce le saremmo potute risparmiare, non dentro i palazzi ma tra i e le comuni mortali, per esempio minando le stesse relazioni inconsapevoli dei legami. Si ritorna qui a un punto che conclude il volume ma che vuole essere apertura riguardo il futuro: se non c’è «cura del vivere» non c’è neppure presa in carico del conflitto e del vivente. E tutto il resto è molto meno credibile – come ha scritto già anni fa il Gruppo del Mercoledì di cui anche Letizia Paolozzi fa parte. E su cui si impegna da decenni il femminismo, non solo italiano.

In altre parole, prendersi cura, di noi stessi e delle relazioni che ci abitano e pratichiamo, non può prescindere dallo spazio esperienziale in cui collochiamo vulnerabilità e fragilità. Se non lo abbiamo compreso adesso, è perché non lo sapevamo nemmeno prima. O perché è tanto più potente la rimozione della consapevolezza dei limiti, propri e altrui.