L’appartamento di via Primo Settembre ha un corridoio che sembra uscito pari pari dal set di Shining di Stanley Kubrick, ma non è l’Overlook hotel, nonostante ciò che vi riecheggia dentro da ieri sia altrettanto sinistro: un’autorizzazione a procedere che la Procura di Messina ha recapitato a Montecitorio, chiedendo l’arresto di Francantonio Genovese, deputato, ex sindaco di Messina e maggiorente del Pd siciliano, per una lunga sequenza di accuse legate all’inchiesta su formazione professionale e corsi ad essa collegati.

Quell’appartamento è la sua segreteria, e, incidentalmente, fino ad ottobre è stata anche sede del Pd di Messina, per una coincidenza di indirizzi la dice lunga su certi equilibri. Perché, a Messina Genovese è da sempre il Partito Democratico, il lider maximo ed indiscusso, fronteggiato senza troppa fortuna solo da sparute sacche di renziani della primissima ora, giovani, cazzuti, agguerriti e isolati. Perché i numeri, le preferenze, il consenso, in città, ce li ha e li ha sempre avuti Francantonio Genovese: Genovese e la pattuglia di consiglieri comunali e circoscrizionali che a lui fanno riferimento. Gli stessi che in queste ore, imbarazzati, preferirebbero togliersi un dente con una tenaglia arrugginita piuttosto che commentare la bastonata che al deputato nazionale è arrivata tra capo e collo, e che da qualche mese a Genovese non faceva dormire sonni tranquilli, dato che per la stessa inchiesta, a luglio ai domiciliari era finita la moglie Chiara Schirò.

E dire che, fino a qualche anno fa, il Genovese che oggi si autosospende dal partito e che viene attaccato da ogni parte (soprattutto dalla sua), era una «bandiera». Nel 2005, a festeggiare Francantonio Genovese sindaco, a sostenere la sua giunta, c’erano pressoché tutte le sfumature della sinistra messinese, dalla più moderata alla più radicale. C’era da battere il centrodestra a trazione An, e non era proprio il caso di sottilizzare troppo su quel candidato di chiarissimi natali democristiani (e per qualche mese addirittura assessore provinciale in una giunta guidata da Giuseppe Buzzanca di An), che a forma di scudo crociato aveva anche pedigree e quattro quarti di sangue. Democristiano era il padre Luigi, senatore dal 1972 al 1994, democristiano era lo zio Nino Gullotti, cinque volte ministro della Repubblica e vera e propria colonna portante del partito, se è vero che, come si diceva all’epoca, possedesse il 41% delle tessere bianche in Sicilia. E siccome la genetica raramente si sbaglia, l’attitudine ai grandi numeri Gullotti l’ha trasmessa per via materna al nipote prediletto: quando Francantonio Genovese si candida alle primarie del Pd per la segreteria regionale, a sbarrare il suo nome è l’85% dei votanti. E’ il 14 ottobre del 2007, Genovese è appena decaduto da sindaco di Messina per un ricorso da barzelletta portato avanti da una frangia socialista da zero virgola zero e qualcosa: circostanza, questa, che gli impedisce il «grande slam», e cioè fregiarsi contemporaneamente delle cariche di sindaco, deputato nazionale e segretario regionale. Ma il suo destreggiarsi tra grandi numeri giova anche a terzi. E così accade che Messina, per un pomeriggio del 2012, da città da sempre intimamente conservatrice all’improvviso si trasforma in Stalingrado e, nella corsa alla segreteria nazionale del Pd, assegna il 75% delle preferenze della provincia di Messina all’ex comunista Pierluigi Bersani. A beneficiare dei numeri da blockbuster è stato anche Giuseppe Lupo, sostenuto da Genovese (e poi vittorioso) nella corsa alla segreteria regionale del Pd e poi «scaricato», quando Genovese stringe un accordo con Raffaele Lombardo, all’epoca presidente della regione Siciliana, piazzando all’assessorato alla Formazione il suo ex assessore comunale al Bilancio, Mario Centorrino.

Pur non ostentando mai ricchezza, e tenendo anzi un bassissimo profilo, anche dal punto di vista imprenditoriale a Genovese è sempre andata bene. Socio della famiglia Franza nella Caronte&Tourist, la società che si occupa di traghettare attraverso lo Stretto di Messina auto, camion e persone, da sindaco Genovese dichiarava un reddito di 664.373 euro, e partecipazioni in una dozzina di società: il 50% della Ge.Fin srl, altrettanto della Ge.Par, il 40% di Euroedil e quasi centomila euro di capitale sociale nella Caleservice (secondo gli inquirenti la società cardine sulla quale si reggono le accuse), permettendosi per questo di sostenere spese elettorali pari a 224.429 euro. Il tutto, però, camminando con una proletaria Fiat 600, l’auto che nel 2006 il sindaco di Messina dichiarava di possedere nella dichiarazione dei redditi.