[ACM_2]«Un giorno i nostri nipoti andranno a visitare i musei della povertà per vedere che cosa [/ACM_2]era la povertà». Questa frase racchiude il pensiero di Muhammad Yunus, economista del Bangladesh diventato banchiere e vincitore del Premio Nobel per la Pace nel 2006. Come professore di economia ha sviluppato i concetti di microfinanza e microcredito, e più recentemente quello di business sociale, una tipologia economica che ha come missione la realizzazione di obiettivi sociali anziché la massimizzazione del profitto. Nel 1977 ha fondato un istituto di credito indipendente, la «Grameen Bank», la cui missione consiste nel fornire il microcredito senza garanzie ai più poveri tra i poveri respinti dagli altri istituti di credito. L’impegno di Yunus ad ampliare il raggio d’azione della Grameen l’ha portata a essere presente in più di 50 paesi nel mondo, oltre che a servire 36 mila villaggi del Bangladesh.
Il fatto che non sia un sogno ad occhi aperti è dimostrato dal fatto che l’azione di Yunus ha aiutato il Bangladesh a ridurre di quasi la metà il tasso di povertà in poco più di trent’anni. Grazie a questo modo di intendere la finanza, è stato infatti possibile che centinaia di migliaia di persone si affrancassero dall’usura riuscendo così ad allargare, gradualmente, la propria base economica.
Negli ultimi anni, la microfinanza e il social business hanno cominciato ad attrarre e coinvolgere multinazionali, fondazioni, banche, singoli imprenditori, organizzazioni no-profit in ogni parte del mondo. Autore di diversi saggi tra i quali ricordiamo Un Mondo senza povertà, Si può fare! Come il social business può creare un capitalismo più umano e Il banchiere dei poveri tutti editi da Feltrinelli. Abbiamo incontrato il Yunus a Lugano dove, su invito di Samantha Caccamo – fondatrice di Social Business Earth -, ha partecipato alla seconda edizione della Social Business Conference presso l’Università della Svizzera Italiana (Usi).

Lei ritiene che l’attuale crisi economica possa essere superata e a quale costo per i poveri del mondo?

Molti governi e studiosi sono impegnati a trovare misure in grado di farci ritornare a un livello di crescita economica pre-crisi. Sono convinto che questa strategia non sia efficace. Inseguire quel traguardo ci riporterebbe, in tempi assai brevi, a dover affrontare gli stessi problemi che stiamo ora cercando di risolvere. Sono più interessato a ricercare soluzioni a lungo termine capaci di stabilizzare l’intero sistema economico. Non sarà un’impresa facile. Al contrario. Prevedo che il tentativo di evitare situazioni di future crisi (alimentari, energetiche, ambientali e disoccupazione di massa) si rivelerà un’impresa assai difficile, se non dolorosa. D’altra parte questa è diventata una priorità. Ritengo che l’attuale momento sia propizio per cominciare a pensare a soluzioni economiche non più basate sul profitto fine a se stesso. Dico questo perché constato che l’attuale è un periodo storico in cui ciò che un tempo era considerato impossibile è ora diventato realtà. Se confrontiamo il presente col passato, solamente 20/30 anni fa una miriade di beni e di servizi non esistevano. Questo mi suggerisce che la distanza tra il possibile e l’impossibile si stia assottigliando sempre più. Un mondo senza poveri non è più una cosa impossibile da ottenere.

In un’intervista rilasciata al [NEROCORS]New Statesman[/NEROCORS] lei ha dichiarato che il problema degli economisti eterodossi riguarda la loro errata interpretazione della natura umana. Può dirci di più a riguardo?

Il sistema economico che ho in mente non potrà che basarsi su di una visione dell’essere umano molto diversa da quella che oggi guida il pensiero economico dominante, che riduce gli esseri umani a cacciatori di denaro. Questo modo di ritrarre l’individuo e la società mi pare superficiale. Gli esseri umani sono molto più che dei robots. Come già faceva notare Adam Smith, possiedono una personalità multi-dimensionale e dinamica. Non nego che a volte gli individui siano egoisti, ma sono anche, contemporaneamente, cooperativi e altruisti. Dobbiamo investigare in maniera molto più approfondita il lato altruistico dell’essere umano. Solamente tale esercizio ci consentirà di dare una solida base teorica al tentativo di creare un diverso modo di organizzare l’attività economica. Io vedo un’economia di mercato (for-profit) finalizzata a rispondere ai problemi della comunità capace di crescere al fianco di attività economiche che mirano solo a massimizzare il profitto. La differenza è che nel social business tutti i dividendi vengono reinvestiti nell’impresa per raggiungere l’obiettivo sociale.
Quando uso il termine comunità, non mi riferisco alle piccole realtà a cui ognuno di noi appartiene; piuttosto, faccio riferimento alla ben più estesa comunità in cui tutti gli esseri umani coabitano assieme a tutte le altre forme di vita.

L’effetto ottenuto dalle politiche di austerità applicate in Europa è stato quello di aumentare la disoccupazione, senza riuscire a stabilizzare i mercati. Non sorprende che tale strategia abbia generato un forte dissenso e crescente scetticismo. Esiste un percorso alternativo che permetta alle società Europee e più in generale a quelle occidentali di combinare crescita economica e riduzione delle diseguaglianze?

Le opzioni di politica economica praticabili entro un sistema economico capitalista sono limitate. In un regime di economia mista, mentre ai governi si chiedeva di proteggere le vittime della tumultuosa crescita economica attraverso un forte Welfare State, alle multinazionali era richiesto di accumulare sempre più ricchezza. Questa dicotomia ha condotto l’umanità sull’orlo del baratro.
Parto da alcune domande. Che cosa è la disoccupazione? Una massa di persone potenzialmente creative il cui potenziale giace inutilizzato. Il sistema economico e politico si cura poco o nulla dedi disoccupati; soprattutto il loro accesso al credito diventa pressoché nullo per via dell’elevato rischio di non poter recuperare il capitale dato in prestito. In un mondo dove l’accesso al credito è negato a quasi la metà della popolazione, la microfinanza diventa un’opportunità fondamentale. Se tutti gli individui possiedono illimitate potenzialità, allora ognuno ha il diritto ad avere un accesso al credito come ogni altro individuo. Il microcredito è un aiuto offerto a tutti coloro che desiderano investire parte del proprio tempo e delle proprie capacità in attività economiche che hanno un’elevata rilevanza sociale. Investire nelle illimitate capacità umane, questo è il futuro. Ogni volta che si produce qualche cosa, si aprono nuove opportunità, proprio perché si genera un reddito per chi prima non ne aveva. Non politiche di austerità ma business sociale, questa è a mio avviso la risposta.

I critici del suo approccio, però, continuano a sostenere che la microfinanza vada bene solo per i paesi del Terzo Mondo perché se davvero si volesse aiutare i poveri, si dovrebbero sostenere industrie di grandi dimensioni e ad alta intensità di lavoro. Come risponde all’insinuazione che la filosofia che sta alla base della sua proposta non possa essere messa in pratica nell’occidente industrializzato e individualista?

In primo luogo, non ho mai sostenuto che il microcredito sia in antagonismo con altre tipologie di organizzazione economica. Sicuramente, non è in contrasto con la produzione ad alta intensità di lavoro. Le attività economiche orientate alla massimizzazione del profitto non esauriscono tutte le forme di attività economica. Oltre alla dimensione del profitto, vi sono infiniti beni e servizi che il mercato non può o non vuole produrre. Il microcredito nasce dall’esigenza di creare opportunità di lavoro per milioni di individui che pur essendo disoccupati hanno ancora molto da dare. A chi sostiene che il microcredito e il social business siano innervati da una filosofia inadatta per i paesi occidentali faccio presente che abbiamo ben sei filiali nella sola New York City. Per definizione il luogo che maggiormente si identifica con il modello capitalista occidentale.
Le persone hanno bisogno di denaro in ogni angolo del globo, dunque anche nella «Grande mela», dove serviamo più di 12.000 persone. E il loro numero continua a crescere. Per la maggior parte sono donne che ripagano i debiti contratti con noi con estrema puntualità. L’esperimento si sta espandendo in altre città nevralgiche degli Stati Uniti, come San Francisco, Omaha, e Los Angeles. Con il passare del tempo ci stiamo rendendo conto che le possibilità di espansione sono pressochéillimitate. Va inoltre ricordato che sempre più spesso ricchi filantropi elargiscono ingenti somme di denaro al microcredito, così come alcune importanti banche a livello planetario (Citigroup Inc. e DeutscheBank AG) hanno creato fondi destinati al microcredito. Questo è quello che vedo. Non credo vi siano differenze sostanziali tra paesi ricchi e paesi poveri quando si parla di microcredito.

Come valuta la proposta di un reddito minimo garantito?

Per rendere attivi gli individui bisogna aiutarli a liberare le loro potenzialità non garantirgli una vita confortevole. Il reddito garantito è una forma subdola di carità, un palliativo temporaneo. Raramente la carità è un buon rimedio; la si può accettare solo per un periodo di tempo limitato e nei casi più estremi. Inoltre, il reddito minimo non mi sembra una buona soluzione perché rischia di abbassare il livello degli incentivi al lavoro e perché il denaro necessario al suo finanziamento sarebbe tolto dalle tasche di qualcun’altro attraverso la tassazione generale.

Il bene comune è un ideale universale o è destinato a rimanere un concetto culturalmente relativo? Che ruolo gioca all’interno del suo pensiero?

Non credo che il bene comune sia un concetto relativo legato alle differenti culture. Al contrario è una nozione universale che appartiene a tutta l’umanità. L’aria, gli oceani, le foreste non devono essere controllate da nessuno (nemmeno dai governi) e nessuno dovrebbe ricavare un profitto dal loro sfruttamento. Le multinazionali stanno sfruttando le risorse naturali del pianeta al punto che oggi si parla del loro esaurimento. Se, ad esempio, il legname diventa un business profittevole, le multinazionali si danno da fare a distruggere intere foreste in giro per il mondo. E questo deve essere fatto nel più breve tempo possibile, così da far salire il prezzo delle loro azioni sul mercato. Questo è precisamente il punto dove l’idea del social business entra in gioco.
Il social business non ha fretta; non persegue la modalità dello sfruttamento dell’ambiente e degli esseri umani. Non si fanno soldi tagliando foreste, ma piantando alberi per far ricrescere quelle foreste sacrificate sull’altare del profitto delle multinazionali. Quello che sto cercando di fare è offrire a questa tipologia economica uno spazio sempre maggiore. Come si vede, il bene comune e il social businesss ono due lati della stessa medaglia.
Se non si vuole fare un ragionamento ingenuo è però necessario porsi il problema degli incentivi. Il mio pensiero a riguardo è il seguente. Gli incentivi economici sono di varia natura e forma. Gli economisti ortodossi ritengono che il profitto sia l’unico l’incentivo capace di spingere gli imprenditori a rischiare i loro capitali. Il profitto, tuttavia, non è l’unico incentivo, bensì un incentivo tra gli altri. Provo a fare un esempio. Nel 1953 Hillary e Norgary conquistarono il Monte Everest. Dopo la loro ascensione, a scapito dei rischi connessi a una tale impresa, centinaia di alpinisti hanno continuato a scalare la montagna. Perché? Pur non esistendo nessun incentivo monetario, c’è un incentivo dato dalla sensazione di gioia, dall’essere stati capaci di superare una difficoltà così grande. Tradotta in termini economici, l’esempio ci dice che il profitto è un incentivo fortissimo, ma rendere le persone felici è un super-incentivo.