Una scultura alta otto metri, dalle abbondanti forme muliebri discinte, trafitta da decine di frecce, è comparsa in piazza Duomo a Milano per annunciare l’inizio del Salone del Mobile, settimana dedicata al design e la più internazionale della città meneghina. L’oggetto in questione è opera di Gaetano Pesce che ha rivisitato un suo mobile disegnato 50 anni fa, la poltrona UP5_6, che raffigura un ampio grembo materno e, a detta dell’autore, si rifà alle statue votive delle preistoriche dee della fertilità. Quando la ideò, Pesce la completò con un pouf collegato alla poltrona da una catena. Era stato lui stesso a dire che in quel momento raccontava una storia personale sul suo concetto di donna che, secondo lui, è sempre stata, suo malgrado, prigioniera di sé.

LA SCULTURA INSTALLAZIONE di piazza Duomo va oltre. Non ha più la palla al piede, ma delle frecce che la trafiggono ovunque, metafora, secondo il designer, della violenza sulle donne, tant’è che l’ha intitolata Maestà sofferente.
Ci sono tanti modi per denunciare o raccontare la barbarie con cui il patriarcato offende e opprime la donna e il suo corpo. Quando sono gli uomini a parlarne, chissà perché si concentrano soprattutto sull’immagine di corpi femminili violati, umiliati e ridotti a oggetti, come se la presa di coscienza del maschio non potesse pensare ad altro che all’immagine dolorante della vittima. Non, quindi, un invito a scavare nelle mancanze del predatore e lo esorti a chiedersi «Perché facciamo tutto ciò?», «Chi siamo?», «Che cosa cerchiamo?», ma di nuovo la rappresentazione di una soggettività resa oggetto. Già l’idea di trasformare l’immagine delle dee della fertilità in una poltrona nella quale sprofondare le proprie chiappe riduce a bene di consumo un simbolico potentissimo, banalizzandolo. Ma c’è dell’altro.

UNA DELLE STATUETTE della fertilità più celebri è la Dea seduta su un trono che fu ritrovata durante gli scavi nella città neolitica di Chatal Huyuk, nel cuore dell’Anatolia, a 50 chilometri da Konya, in Turchia. Esposta nel Museo delle Civiltà Anatoliche di Ankara, il suo corpo nudo e sovrabbondante è raffigurato nel momento in cui partorisce un bambino, seduta su un trono i cui braccioli sono due leopardi e per questo viene chiamata Dea degli animali. Modellata in terra cotta, alta circa 30 centimetri, risale al settimo millennio avanti Cristo e fu trovata nella cassa di grano di uno dei santuari della città. Associate alla fertilità, alla terra, alle piante, agli animali, queste statuette sono simboli religiosi di quel periodo, quando si riconosceva alla donna la potenza di divinità originaria e protettrice della vita. La poltrona gigante di Pesce è quindi molto lontana sia dall’intento con cui le civiltà preistoriche raffiguravano le divinità madri, sia dalla loro raffigurazione ed ecco perché.
Là c’è un corpo intero, con testa e membra, rappresentato nella sua potenza. Qua abbiamo un essere decapitato e pensato soprattutto nella sua funzione di comoda seduta. Là c’è una materia viva come l’argilla che fa vibrare ogni fibra. Qua abbiamo un agglomerato gommoso e ripulito da ogni asperità. Là si celebra la forza primigenia. Qua si sottolinea lo svilimento.

GLI UOMINI che umiliano le donne sanno benissimo che cosa fanno. E allora perché continuare a mostrare l’effetto della loro miseria? Perché invece non rappresentare le loro incapacità, le loro mancanze, i loro buchi neri, la loro impotenza? Che cosa temono? Probabilmente di guardarsi allo specchio, di confrontarsi, di ammettere ciò di cui hanno paura, di riconoscere l’altrui potenza. Viene da dire che i neolitici erano molto più avanti di noi.

mariangela.mianiti@gmail.com