Nel Museo civico archeologico di piazza Maggiore a Bologna, fino all’8 settembre è allestita la mostra dal titolo Ex Africa. Storie e identità di un’arte universale, a cura di da Ezio Bassani e Gigi Pezzoli. Il percorso può contare su opere straordinarie: si va da antiche mappe e libri di viaggio, a statue e maschere provenienti dai più importanti musei europei e da celebri collezioni private, fino all’arte contemporanea.
Una particolare attenzione è dedicata a opere del XV e XVI secolo, il cosiddetto periodo dei viaggi di scoperta, quando i rapporti tra Europa e Africa erano caratterizzati da atteggiamenti oscillanti tra curiosità e repulsione ma anche rispetto, visto che il re del Congo interloquiva alla pari con il suo omologo portoghese, chiamandolo «fratello». Poi l’atteggiamento mutò. Fu la tratta degli schiavi a trasformare radicalmente quella visione: con un processo progressivo e inesorabile gli africani furono rappresentati come selvaggi, antropofagi, violenti, sessualmente sfrenati, in sintesi non-persone. Conseguentemente, anche le loro creazioni diventarono semplici e anonime testimonianze di popoli inferiori, nel migliore dei casi documenti etnografici. Non c’è da stupirsi, quindi, se quando all’inizio del ’900 furono rilevate le sculture di Ife, la sola spiegazione che gli Europei riuscirono a dare fu che si trattasse della creazione di artisti greci dell’antichità, persi nel Sahara fino ad arrivare in Nigeria. Un’ipotesi fantasiosa collegata addirittura al mito di Atlantide.
Il processo negazionista, voluto e ideologicamente costruito aveva prodotto i suoi effetti. Eppure, già duemila anni fa Plinio il Vecchio scriveva semper aliquid novi Africam adferre, come dire che dall’Africa c’è sempre da aspettarsi qualcosa di sorprendente.

L’ESPOSIZIONE DI BOLOGNA documenta questo percorso, il lungo e fatico processo per riconoscere e ridare dignità alla creatività del continente nero. Tra le opere esposte, troviamo la potente Nkisi, una figura magica del Congo, le statue femminili Bamana del Mali, le maschere antropomorfe Kponiugo della Costa d’Avorio.
Cinque delle nove sezioni documentano un’Africa che non c’è più, due raccontano i rapporti tra Africa e Europa all’inizio del Novecento e due, infine, trattano temi della contemporaneità. Il percorso illustra il contesto temporale delle opere, la storia e la singolarità di ognuna, ma soprattutto la loro collocazione fuori dall’Africa indistinguibile con la relazione con gli africani fuori dal continente. Un’impostazione che fa della mostra un luogo contemporaneo, non solo la testimonianza di un’epoca lontana. Il tema centrale è dunque la relazione Occidente – Africa, l’immaginario reciprocamente costruito e come si è trasformato nei secoli.

PER CAPIRE COME SI GIUNGE a quella che Valentin Mudimbe ha definito «l’invenzione dell’Africa» sono fondamentali i libri di viaggio antecedenti all’epoca coloniale, dal Cinquecento in avanti. Sono in genere resoconti frutto di una visione «fantasmagorica» che rappresenta con orrore il continente e i suoi abitanti. In quei libri, «l’Africa è l’occasione – secondo Pezzoli – per riproporre le ombre del mai visto, i mostri che da fantasiosi diventano reali». Non si trattò di un processo lineare, anzi vi furono anche iniziali apprezzamenti, ma si impose lentamente il distinguo radicale: gli africani erano pagani, quindi collocati in un punto più basso della conoscenza, del sapere e della rivelazione. Dalla presunta idolatria, dall’immoralità e dalla brutalità attribuita a quei popoli, il passo era scontato: la tratta degli schiavi era legittima. Se il Negro era un semi-animale poteva diventare una merce. E quell’antico processo divenne poi il presupposto dell’intento civilizzatore della successiva epoca coloniale.

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QUALE L’EFFETTO sulla creatività e sull’arte africana? In primis, prosegue Pezzoli, «gli studi storici hanno dimostrato che i resoconti di viaggio europei sono utili per documentare le scoperte geografiche, assai meno per la storia e la cultura delle popolazioni. Non a caso, fino all’inizio dell’Ottocento le immagini di statue e maschere erano rarissime nella pubblicistica europea. D’altra parte l’immaginario negativo nei confronti del continente non poteva che generare un rifiuto dell’idea che gli africani avessero potuto produrre opere d’arte».

In Europa arrivavano quelle che potremmo chiamare «curiosità esotiche», oppure reperti etnografici privi di valenza estetica, finché nei primi anni del ’900 non esplose il movimento delle «avanguardie storiche»: dall’espressionismo tedesco al cubismo francese, fino al surrealismo. Una rivoluzione che stravolse la «classicità» e trovò nell’arte africana stimoli per nuovi canoni estetici.

LA MOSTRA PROPONE anche una sezione contemporanea di grande interesse ed estremamente evocativa: il trono del re costruito assemblando obici e pallottole dell’artista mozambicano Gonçalo Mabunda, l’arazzo tessuto con scarti di lattine e fil di rame di El Anatsui che il Papa Ratzinger volle dietro l’altare nella sua messa in Nigeria.
Nel complesso, una sequenza di opere d’arte e di temi riflessivi che contrastano antichi pregiudizi, che propongono al visitatore una nuova conoscenza dell’Africa e, in ultima analisi, suggeriscono una diversa visione sulle persone provenienti oggi dall’altra parte del Mediterraneo. Per evitare i rischi di quello che i Boscimani chiamano il tempo della iena, l’animale più temuto: la perdita dell’invisibile, il fruscio delle cose lontane, il vento leggero dell’umanità.