La frenetica trasformazione delle forme dell’arte giustifica le remore degli specialisti a impegnarsi in analisi esaustive e incentiva tattiche più prudenti: ricognizioni, mappature e attraversamenti. In un mondo segnato dall’istantaneità e dall’accelerazione, in cui ogni grande narrazione risulta indigeribile e la verità è una fantasmagoria, per studiare un qualunque fenomeno sembra meglio accumulare esempi e pronunciarsi per frammenti e appunti. Tanto più che l’accumulazione avrebbe il pregio di essere in sé eloquente, seducente, e di comporre strutture di senso, eludendo l’imposizione autoritaria di una tassonomia. A questo modello si ispira La furia delle immagini Note sulla postfotografia (Einaudi, pp. 248, euro 22,00, traduzione di Sergio Giusti), ultimo saggio di Joan Fontcuberta (Barcellona,1955), fotografo, oltreché curatore e docente, e già autore di testi su storia, estetica e pedagogia della fotografia, tra cui El beso de Judas. Fotografía y Verdad (1997) e La (foto)camera di Pandora. La fotografi@ dopo la fotografia (Contrasto, 2012).
Per Fontcuberta il termine postfotografia, coniato nel 1988 dall’artista canadese David Thomas, indica «ciò che supera e trascende la fotografia. Almeno la fotografia per come l’abbiamo conosciuta fino a adesso». Tuttavia nel libro il termine designa più in generale un insieme vario di pratiche artistiche ibride, figlie di un regime visuale nel quale il vertiginoso flusso iconico ha modificato in maniera sostanziale il rapporto dell’uomo con lo spazio, il tempo, la memoria e l’identità. «L’era postfotografica nella quale ci troviamo è caratterizzata dalla produzione massiccia di immagini e dalla loro circolazione e disponibilità in internet. Alle fratture ontologiche alle quali la tecnologia digitale espone la fotografia, si aggiungono cambiamenti profondi nei suoi valori sociali e funzionali». La valanga delle immagini ridefinisce le condizioni del pensiero umano. La «furia» a cui allude il titolo è quindi la vitalità apparentemente autonoma e incontrollabile dell’iconosfera.
La forza e al tempo stesso l’ovvietà del ragionamento di Fontcuberta sono di riflettere sullo statuto dell’immagine smaterializzata partendo dalle vicissitudini recenti della fotografia digitale. È una proposta costruttiva nella misura in cui sviluppa un discorso sull’estetica contemporanea tenendo conto delle sue implicazioni sociali: la «postfotografia non è altro che la fotografia adattata alla nostra vita online». È una banalità perché l’ossatura concettuale su cui s’innestano i vari esempi si compone di tesi perlopiù note, benché volte a comprendere realtà nuovissime. Del resto, «la postfotografia non rivendica l’originalità ma l’intensità». Fontcuberta, infatti, dapprima riscopre la lezione dell’avanguardia storica, ossia la rinuncia al mestiere in favore dell’arbitraria «prescrizione di senso» a oggetti e gesti triviali o casuali. Quindi, dato che la società attuale richiede agli individui di assumere identità duttili, spiega che l’atto creativo non può che rispecchiare la versatilità dei ruoli. Il consumatore è simultaneamente produttore e la creazione non è più prerogativa dell’artista di professione, perché chiunque può concepire, raccogliere e manipolare immagini attingendo al magma del cyberspazio. E può farlo sia da solo che in compartecipazione. L’autore «si mimetizza o si disperde in una nuvola condivisa. Nascono modelli alternativi di autorialità: coautorialità, creazione collaborativa, interattività, strategie d’anonimato, lavori senza una paternità specifica». Neanche quest’idea rappresenta una novità; tuttavia può essere utile al lettore italiano trovare conferma del fatto che la nozione di autore ha mutato paradigma, perché è sconsolante constatare quanto fascino eserciti tuttora lo stereotipo del genio modernista.
Considerato che condividere è meglio che possedere, Fontcuberta preferisce parlare di «adozione» piuttosto che di «appropriazione»; del resto, l’accesso oggi fin troppo facile alle immagini ha ormai sottratto al ready-made il suo carattere eversivo. Adottare «un’immagine significa sempre riconoscerle in maniera pubblica un valore simbolico, facendo professione di un certo atteggiamento verso il prossimo». In effetti, la dialettica tra il Sé e l’Altro è un motivo ricorrente nel saggio. E siccome nessuna panoramica sulla cultura visuale contemporanea può esimersi dal prendere in esame il selfie, La furia delle immagini non fa eccezione e, senza girarci intorno, presenta la «danza selfica» quale sintomo del narcisismo imperversante. «Il selfie instaura una nuova categoria d’immagini, com’è successo a suo tempo con le fototessere o le foto di matrimonio. Ma la sua invadente irruenza fra le pratiche postfotografiche va letta nel senso di una gestione dell’impatto che vogliamo produrre sul prossimo». Ciononostante, essendo l’espressione tecnologicamente potenziata di un’attitudine innata nell’animo umano, il selfie resta in definitiva una risorsa preziosa anche se incoraggia la bulimia del visibile. A livello tecnico, Fontcuberta distingue due modalità operative: l’autofoto, il semplice autoscatto, e il riflessogramma, cioè l’autoritratto allo specchio. E a quest’ultimo argomento dedica quella che è forse la sezione più riuscita di tutto il suo libro.
L’uso vernacolare e massificato delle immagini solleva il tema della responsabilità dell’artista. «L’incontinente produzione d’immagini ci getta in un caos senza limiti; la missione degli artisti consiste allora nel resistere e cercare di recuperare il controllo, domando queste immagini inselvatichite». L’artista diventa quindi un attivista che lavora per arginare l’inquinamento iconico attraverso pratiche di riciclo, adozione o addirittura di astinenza e contenimento. Fa sempre un certo effetto sentire un artista consacrato dal mercato, dallo Stato, dai musei e dall’accademia internazionale parlare con fervore di «non arrendersi né al glamour né alle logiche commerciali per muoversi verso un attivismo che scuota le coscienze». Eppure Fontcuberta è un ottimista e sebbene della postfografia conosca bene i lati negativi – la deriva conformista e iperconsumista, l’oppressione scopica e panottica – sceglie di rimarcarne il potenziale democratico di emancipazione. Il problema emerge proprio quando arriva a porre candidamente la fotografia quale strumento di una nuova cultura visiva in cui sono contrapposte in modo manicheo democratizzazione ed elitarismo, flessibilità e rigidità, impertinenza e solennità. Non a caso, seppur centrato sull’uso politico dei dispositivi video per la sorveglianza, il capitolo che dà il titolo all’intero saggio appare semplicistico e sbrigativo, quasi un orpello da adescamento.
Per il resto, il volume lascia trasparire la propria origine composita: avvincente ma poco postfografica la piccola storia culturale dell’album di famiglia; trite le osservazioni sul museo e sui processi di musealizzazione. Comunque il valore del libro è altro dall’approfondimento. Con logica assolutamente postfotgrafica, Fontcuberta ha proposto un repertorio aggiornato (l’edizione originale è del 2016) di casi di studio sull’utilizzo creativo dell’immagine digitale. Per dirla con Borges, a cui Fontcuberta ama rifarsi, La furia delle immagini è un «emporio celeste di conoscimenti benevoli», ordinati in modo non proprio consequenziale però aggraziato in un’esposizione che cerca soprattutto la scorrevolezza.