«Una versione fiacca e edulcorata del cristianesimo che afferma grossomodo che bisogna essere carini e che la salvezza consiste essenzialmente nel trovare armonia e benessere nel quotidiano». La lingua dei bigotti, la chiama l’autore, per cui la grazia è «il desiderio di un io che non vuole neanche per sogno lo spossessamento di sé» e il cristianesimo un bell’umanesimo carico di valori possibilmente di bontà, solidarietà e tolleranza.

«Il cristianesimo ora cerca di mostrarsi attraente per guadagnare nuovi clienti sul mercato della spiritualità e della ricerca di senso». Un umanesimo integrale da far concorrere con altre ideologie e vinca il migliore. A questa soluzione si opponeva con lucida forza qualche decennio fa un teologo recalcitrante e presto dismesso, José María González Ruiz, in un libro perentoriamente intitolato Il Cristianesimo non è un umanesimo.

SFACCIATO SICURAMENTE lo è anche Dominique Collin (Il Cristianesimo non esiste ancora, traduzione di Gloria Romagnoli, Queriniana, pp. 197, euro 22) teologo e filosofo francese, domenicano, «mi stupisco che non si sia ancora fatto entrare il cristianesimo nella lista del patrimonio materiale e immateriale dell’Unesco», una specie di «riserva naturale» in cui «i cristiani non disturbano, ma non sono più presi sul serio», vogliono «far credere che il cristianesimo sia una religione della felicità, che è invece un anestetico, biblicamente un idolo». Al contrario, nei Vangeli non c’è Soggetto che tenga, l’ego è disfatto e l’impresa moderna della soggettività più che traballante: «Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà». Chi mai vuole perdere la propria vita, disfare il proprio io?

Nel libro di Collin non c’è rifrittura del solito teologhese, ma neppure raddoppio di dosi di comunicazione efficace e adatta ai tempi: «più il cristianesimo comunica, meno sembra parlante». D’altra parte nei Vangeli Gesù parlava per parabole, non per sfavillanti sillogismi, per parole d’ordine o commoventi poesiole. Richiedeva di essere ascoltato con altre orecchie. L’uditorio doveva chiedersi perché non capisco? Cosa vuole veramente da me?

IL CRISTIANESIMO è stato colpito dall’insignificanza nonostante la profusione di parole che ancora sa mettere in circolo come un marchio di fabbrica a cui pochi ormai accedono ma molti continuano a riconoscere. L’Evangelo (e non «il Vangelo» come cattolicizza la per altro ottima traduzione) è «l’evento di parola che annuncia la possibilità di esistere in modo diverso» ed è per questo che «il cristianesimo non è bell’e fatto, ci resta da inventarlo». Dove l’invenzione mantiene la sua duplicità etimologica, trovare e creare. «Il cristianesimo non esiste ancora», come recita il titolo. «È un evento a-venire».

«Dì tutta la verità ma dilla obliqua» raccomanda Emily Dickinson. È ciò che fa Dominique Collin? Prima di scrivere la sua appassionata perorazione si è guardato intorno? Ai cristianesimi storici sempre più in affanno, cattolicesimo e protestantesimo soprattutto, si oppone in consistente espansione un panorama a due andamenti contrastanti, che qui si esasperano.
Il secondo dei quali è l’unica forma di cristianesimo a guadagnare terreno ovunque nel mondo e non casualmente è definito il quarto cristianesimo.

DA UNA PARTE un cristianesimo immerso in una spiritualità incantevole, che non frequenta le feste di Briatore, sa calcolare le calorie giuste, utilizza la Bibbia come prontuario di estetica interiore, frulla una miscellanea di sacralità, fa esperienza di emozioni sempre toccanti, ama le cose amabili; dall’altra un cristianesimo militante, dall’etica ruvida e rigida, con lo Spirito che soffia a gentile richiesta, entusiasmo e fervore garantiti, una gerarchia di ruoli intoccabile, amante della legge e dell’ordine, insomma saldissimo.
Il «cristianesimo a-venire» proposto da Collin ha un futuro?