Mediterranea è un atto di coraggio e di affermazione di umanità contro la criminalizzazione della solidarietà e la negazione della libertà di movimento. Mediterranea è un’azione affermativa, semplicemente giusta e necessaria in un’epoca complessa caratterizzata da una flessione economica feroce a scapito dei soggetti più deboli e da continue campagne d’odio pienamente iscritte in una tendenza globale reazionaria.

Mediterranea è «esperienza della possibilità dell’impossibile». L’indignazione, l’antirazzismo, le isole di resistenza quotidiana, socialmente trasversali, le pratiche diffuse di solidarietà, dal basso, ma talvolta portate avanti anche da chi occupa ruoli istituzionali implicano in quest’epoca azioni tangibili. Le parole non bastano più.

Mediterranea ha provato ad agire per contribuire ad un arricchimento di una cassetta degli attrezzi comune ai tanti e alle tante diverse che in questi anni hanno reinventato pratiche solidali.

Solidarietà per Mediterranea significa lotta per la vita contro la morte: quella in mare, ma anche quella in terra. Troppo spesso il governo delle migrazioni – nazionale ed europeo – equivale al governo della povertà e dell’esclusione.

Il mare ha prodotto nell’ultimo anno «dibattito politico e mediatico» con le sue rappresentazioni dello spudorato potere di «lasciar vivere o far morire». L’ex ministro dell’Interno, e il governo di cui era parte, ha prodotto roboanti accelerazioni – i Decreti Sicurezza come ricaduta tra le più evidenti – ben preparate da chi lo aveva preceduto. Mediterranea si è interrogata su come ribaltare la prospettiva. Sosteniamo che riaffermare concretamente la giustezza del salvataggio in mare sia una prerogativa per prendere parola dando vita a quegli «equipaggi di terra» che hanno il compito non solo di consentire miglia in mare che valgono vite, ma anche di essere nei territori con lo stesso piglio e orizzonte comune di chi si appresta a difficili operazioni di salvataggio.

Costruire «equipaggi di terra» significa per noi mettere al centro, in terra come in mare, l’azione e la relazione, la loro radicalità e il loro potenziale. Significa comprendere come funziona un equipaggio, la ricchezza del «vivere comune» e del condividere spazio e risorse. Significa salvarsi insieme sapendo di non essere autosufficienti.

Essere «equipaggi di terra» vuol dire pianificare azioni che incidano sui diritti di chi viene salvato e sulla vita, quale vita, di chi tra i naviganti condivide sulla terraferma i territori, ribaltando la «guerra tra poveri» in una mappa della solidarietà in continuo divenire.  Mediterranea ha provato ad essere una e molteplice, una sfida continua nella azione quotidiana.

Non va banalizzata la difficoltà di essere una piattaforma, non una Ong, un organismo, una rete, un rimbalzo continuo, una mappa che andava moltiplicando l’evidenza di moltissimi «porti sicuri» in terra. La scelta di essere molte e molti uniti dalla fondamentale battaglia del nostro tempo per la libertà di movimento, ha significato una divisione di responsabilità economiche e politiche enormi, quasi più grandi di noi.

Il crowdfunding che ha consentito il susseguirsi delle missioni che hanno condotto in salvo 237 vite è stata per noi una sorpresa rinnovata ogni mese. Mediterranea a terra è riuscita ad attivare ma anche a partecipare concretamente – costruendo occasioni di incontro – migliaia di piccole donazioni, frutto di scelte individuali o di eventi collettivi. In questi mesi ci sono state migliaia di iniziative, in media una e mezza al giorno, a sostegno di Mediterranea: il motore concreto della Mare Jonio in mare.

Rilanciare è quel che dobbiamo fare. Mediterranea non ha esaurito il proprio mandato, quello di salvare per salvarsi, di monitorare, denunciare, agire e dare battaglia. Siamo in una fase di attesa imposta dal cambio di governo, ma non va abbassata la guardia. La certezza di un porto sicuro per chi salva e chi viene salvato va stabilita nel rispetto dei diritti fondamentali, rivendicati dal coraggio e dalla determinazione di chi migra e di chi non può voltare la faccia.

La situazione in Libia non può essere derubricata fino a che non si apriranno di canali di ingresso tutelati per chi continua a subire torture e violenze sbattendoci in faccia orrori del passato su cui tanta e spesso vuota retorica viene spesa. Dobbiamo agire le trasformazioni sociali, pretendendo per tutte e tutti il poter vivere e soprattutto con-vivere sul nostro territorio.