Pierpaolo Brovedani: «In questo periodo di lockdown ho avuto modo di riflettere, da pediatra, sugli spot “umanitari” che alcune onlus ci mandano in continuazione con immagini di pietismo e orrore, quasi sempre di bambini africani in condizioni drammatiche. Matt Collin definisce “pornografia della povertà” l’immagine che sfrutta le condizioni dei poveri per aumentare le donazioni: “Lo stereotipo della pornografia della povertà è il bambino africano con pancia gonfia, lo sguardo fisso verso la telecamera, in attesa di essere salvato”.

Ci sono dentro quasi tutti: da Save the Children a Medici Senza Frontiere, senza escludere Emergency e nemmeno l’istituzionale Unicef. Alcuni studi hanno dimostrato che le emozioni negative attivano una maggior predisposizione a donare e quindi sono più efficaci nel chiedere e ottenere soldi (crowdfunding suona forse più elegante..).

Dal punto di vista etico vengono sicuramente violate sia la Carta di Treviso (Ordine dei Giornalisti) che le Linee Guida per la Raccolta dei Fondi (Ministero del Lavoro) che vietano l’uso di immagini lesive della dignità della persona.

Probabilmente se le immagini riguardassero un bambino bianco le regole etiche verrebbero maggiormente rispettate. Invece il bambino dalla pelle nera viene visto e catalogato con criteri culturali ben radicati, che risalgono al colonialismo e al razzismo diffuso, e che consolidano quindi uno stereotipo invece di abbattere le barriere che si sono innalzate.

La continua somministrazione di queste immagini rischia invece di creare assuefazione (se non un vero e proprio rifiuto). La corsa all’orrore fotografico corrisponde esattamente alla logica del sistema pubblicitario di una società di mercato, coerente con il “capitalismo compassionevole” in cui comunque l’1% possiede il 50% della ricchezza. Le donazioni rischiano di farci dimenticare le reali responsabilità di chi sottrae le risorse, finanzia e provoca le guerre, desertifica i territori, provoca morte, devastazione, migrazioni e povertà».

Sarantis Thanopulos: «Caro Pier come pediatra impegnato nel tuo lavoro, sai distinguere tra compassione che nasce dalla passione e compassione che crea mistificazione. La prima è legata al desiderio di vita che soffre, ma resiste, persiste nell’altro e con il quale il nostro desiderio si identifica. Nel patire dell’altro patiamo anche noi, perché la sofferenza ci fa capire cosa davvero disideriamo, in essa scopriamo le ragioni più irriducibili del nostro amore per la vita, quelle che ripudiano l’esistere in anestesia. Soffre chi è vivo, chi non soffre è morto.

Nulla ci fa capire meglio la fragilità e, al tempo stesso, la forza della vita, della sofferenza di un bambino. Il sentire la nostra natura umana ribellarsi, combattere per difendere i nostri inizi, l’origine permanente della nostra estroversione al mondo, ci radica in noi stessi come parte di una comunità. Pure quando il bambino soccombe a un destino infausto, l’amarezza e il senso della mancanza che ci attanaglia, uniti alla consapevolezza di aver dato battaglia, fa rivivere il suo respiro dentro di noi. Ho grande ammirazione per la pediatria impegnata: la saggezza della cura che ama l’infanzia.

La compassione mistificante crea un confine tra noi e chi soffre. Chi patisce è un “migrante” a cui non è permesso di attraversare il confine. Lo si curerà “a casa sua”, cioè nel suo spazio di dolore che non ci deve contaminare. La diversità di colore sottolinea la separatezza, l’esistenza di due mondi che non devono confondersi. Quando la cura diventa assistenza, si fa strada l’esigenza di sentirci umani e buoni, ma allontanando la sofferenza da noi. Le emozioni “negative”, provocate da visioni “forti”, creano rifiuto/assuefazione. Il rifiuto può essere negato con le donazioni: esse allontanano da noi le emozioni indesiderate e la “crisi di coscienza” che ci imporrebbe, invece, una loro elaborazione».